lunedì 3 ottobre 2011

Ritorno in Lucania



Tornare a vivere stabilmente nella mia terra d’origine mi ha fatto venire alla mente la figura ed i versi di Leonardo Sinisgalli:

Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse.
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.

E’ la poesia Lucania, di cui vorrei riportare la parte iniziale:
                    
                                 Lucania
Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio,  a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.

 
Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia  dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati…
La lentezza è il primo elemento che contraddistingue questa terra, una lentezza che si può cogliere anche nell’accezione negativa di indolenza ed arretratezza: la Lucania è indietro, paurosamente indietro rispetto a quel Progresso di cui Sinisgalli diventa testimone ed artefice, nelle lontane città del Nord.
Terra misera, questa regione, ‘terra magra’ dove ogni persona, ogni costruzione, ogni pietra ed ogni filo d’erba è intriso di dolore e silenzio.
A questi due elementi di fondo se ne accompagna un altro, che avremo modo di mettere in luce in successivi interventi. Si tratterà di una  tematica presente in controluce sia in Sinisgalli che in altri autori lucani, autoctoni e di adozione (C.Levi), del ’900.
La polvere (<<fiumi di polvere>>), il silenzio quasi sepolcrale e l’oblio avvolgono la congerie di paesaggi-oggetti-persone descritti nella poesia, elementi caratterizzanti una terra che appartiene (già nel periodo in cui scrive Sinisgalli) ad un passato che lentamente si avvia a scomparire, ormai .
Di qui la nostalgia, il dolore, un senso di distacco non solo geografico (l’emigrazione al nord Italia) verso questo mondo perduto, che si dischiude all’improvviso dinanzi agli occhi di un viandante; uno struggimento verso una civiltà- scoperta in quegli anni da Levi- che si avvia alla inevitabile trasformazione: scomparendo o mescolandosi ibridamente con il Presente.
L’ultimo asino di un paese, l’ultimo contadino che ancora si reca in campagna a dorso di mulo, questi ed altri segnali sono le ultime tracce, i brandelli di una inevitabile perdita.
L’interrogativo finale di Sinisgalli
Udrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?
potrebbe allora leggersi, piuttosto che nel senso di una foscoliana condanna all’esilio, come un’incertezza, un dubbio nel ritrovare intatta la propria terra, misera e dolorosa sì, ma intensamente e visceralmente sentita dal poeta-ingegnere, da chiunque vi metta piede.
Cosa rimarrà e cosa è rimasto di questa antica civiltà contadina?

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