venerdì 25 novembre 2011

Favola

Favola


Da piccolo  
non avevo che il Fuoco che mi raccontasse favole.


Di fuori la Bufera si faceva sentire,
con i suoi frustini di grandine sui vetri,

                    e liberava cavalli di vento nella notte nera senza fine...

mercoledì 16 novembre 2011

"Che la festa cominci" , Niccolò Ammaniti



Nel suo penultimo romanzo Ammaniti, utilizzando una gigantesca, rutilante metafora (in cui si mescolano, ancor più che nei lavori precedenti, cinema, tv, cartoni, riviste, internet e centri commerciali), ha voluto far esplodere il trionfo- forzato oltre i limiti del trash o di quello che è stato chiamato pulp- di una società arrivata ormai al culmine della crisi. Forse. Perchè, come ammonisce uno dei tanti personaggi del libro: <<Il tempo delle figure di merda è finito, morto, sepolto. Se n’è andato per sempre con il vecchio millennio. Quelle che tu chiami figure di merda sono sprazzi di splendore mediatico che danno lustro al personaggio e che ti rendono più umano e simpatico>>.
Chi vuol consolarsi si consoli.
La narrazione di Che la festa cominci segue il tipico ritmo incalzante di Ammaniti, il quale recupera   quel registro comico e ‘fumettaro’ delle  origini, un’ atmosfera  che via via però diventa sempre più tragica, disgustosa, macabra.
Al centro di questo nuovo romanzo c’è una memorabile festa, che dovrà stupire proprio tutti (e vengono in mente analoghi parties, nella realtà, iperlussuosi, con tanto di esplosioni di vulcani artificiali) dove verrà radunata tutta la società italiana che conta: personaggi televisivi, chirurghi estetici, cantanti, soubrette, uomini d’affari.  Nomi e cognomi sono rigorosamente inventati.
Durante questo evento mondano si intrecceranno i destini dei tre protagonisti del romanzo: Saverio Moneta detto Mantos (leader della sparuta setta satanica Le Belve di Abbadon), lo scrittore Fabrizio Ciba e l’imprenditore venuto dal nulla Sasà Chiatti. Anche se quest’ultimo vorrà ostentare a tutti i costi il suo essersi realizzato, alla fine non sarà da meno degli altri due. Un fallito cioè. Un personaggio che, in realtà, ricorre in tutte le opere di Ammaniti, dal giovane Marco Donati protagonista del primo romanzo Branchie (un disperato, il quale sa che gli rimangono pochi mesi di vita a causa di un tumore), fino ad arrivare a  Rino Zena (Come Dio comanda), muratore precario, separato ed alcolizzato.
Sullo sfondo, anche se qui appena accennata, rimane ancora la periferia come luogo oramai fisso delle narrazioni di Ammaniti. Oriolo Romano (dove in una pizzeria si riuniscono le Belve di Abbadon )  rimanda al Comprensorio delle Isole, ad Ischiano Scalo, a Varrano.
La periferia diventa il luogo di una condizione di vita marginale, degradata.
E se gli altri romanzi di Ammaniti, per concludere, avevano un finale amaro, qui, nonostante tutto, sembra esserci una via di fuga. La risposta a questa società ormai alla deriva non arriverà dalla Letteratura, o meglio da quello che è diventata oggi anche la Letteratura, visto che lo scrittore Fabrizio Ciba (<<il terzo uomo più sexy d’Italia secondo il settimanale femminile Yes>>) dimostrerà di essere molto più cinico di tante vallette qualunque o rampanti imprenditori.
La risposta arriverà, in chiusura, dall’amore (assente nelle opere  precedenti), quello vero e semplice, che suggellerà un insolito lieto fine, al di sopra di tutto questo spaventoso panorama.

martedì 8 novembre 2011

‘Stregati’ dalla solitudine



Ci sono molte analogie che accomunano i romanzi vincitori di  due recenti e consecutivi  premi Strega(2008 e 2009): La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e Stabat mater di Tiziano Scarpa.
La storia di Cecilia, ragazza abbandonata e cresciuta in un orfanotrofio, e quelle di Mattia ed Alice, matematico lui, rinchiusosi in un volontario ed auto-lesionista autismo, adolescente e ragazza ‘diversa’ lei-per via di una gamba claudicante-che cerca in tutti i modi di somigliare alle sue coetanee, sono storie  dalle quali emerge  un unico tema di fondo: la solitudine (che non a caso dà il titolo al libro di Giordano).
Una solitudine che ‘attualizzata’ diventa innanzitutto incapacità di dialogare, disadattamento (<<Poi pensò che era la cosa più naturale del mondo e che proprio per questo lui non ne era capace>>, La solitudine dei numeri primi).  Per sforzarsi di diventare bella come le compagne di scuola, ed entrare così nel loro giro, Alice finisce per diventare anoressica. Questa sua malattia le si imprime come un segno indelebile e doloroso, quanto le cicatrici profondissime che ogni volta Mattia si procura per non sentire un dolore incessante, il rimorso che lo soffoca, da quando-bambino-ha abbandonato la sorellina disabile in un parco...per poter andare da solo ad una festa di compleanno.

sabato 5 novembre 2011

Tempi antichi (racconto)

                                                      Tempi antichi
                                                              
Tutto in paese, in autunno e primavera, profumava di calce, diventava bianco, candido come  dopo una nevicata. Davano bianco su grigio finché diventava bianco su bianco. In questo modo  la gente pensava di lavarsi  anche la coscienza. Mettendo a bianco il paese imbiancava peccati e  porcherie. Anche se nelle loro coscienze sapevano che non era così…
Mauro Corona, Storia di Neve



Sulle pietre diroccate di una vecchia forgia, sul muro ormai pericolante una scritta, fatta con lo spray. Una frase quasi incomprensibile, uno scarabocchio in realtà, firmata con lo pseudonimo di un writer: Brigante ’92.
Intorno a questo vecchio edificio ci sono altre case antiche e cascanti, tutte con i muri di pietra a vista, e poi archi, scalinate, finestrelle…
Di legno quasi fradicio invece, sono le porte ad arco di tante cantine che popolano il centro storico di questo piccolo paese della Lucania.
Nel pomeriggio di fine ottobre che sopravanza, mangiandosi sempre di più il giorno, rimangono aperte le porte delle cantine, mentre deboli luci elettriche penzolanti le illuminano fino a sera inoltrata. Si sentono rumori e voci, c’è un gran daffare. Damigiane sciacquate e tini di plastica nera aspettano vicino le fontane. Nell’aria l’odore del mosto, che forma sottili rigagnoli tra le scanalature della pietra antica, scorrendo per i lastricati o lungo i gradini di vicoli e vicoletti.
Un odore che dà alla testa mentre il Sole, rosso come le foglie in questa stagione, tramonta  in anticipo in un cielo sempre più freddo.
Se lo inghiottono le valli il Sole, assieme agli ultimi gridi delle rondini.
E da ogni vallata sale, nel grande imbuto del cielo, lo sferragliare delle motozappa, dei piccoli mezzi agricoli che tornano in paese carichi di grappoli d’uva.

L’anti-Arcadia di Mauro Corona


La ricerca del silenzio, della solitudine, la fuga dal Presente, sembrano aver caratterizzato l’ispirazione di molti scrittori negli ultimi decenni.
I casi più recenti potrebbero essere quelli di Erri De Luca e Mauro Corona, che hanno deciso di praticare una sorta di ascetismo letterario e spirituale.
Il primo, ritirandosi nella campagna romana, ed occupandosi prevalentemente di studi biblici. Il secondo vivendo nel suo studio di Erto, piccolo paese di montagna (entrambi gli scrittori sono appassionati scalatori) nella provincia friulana.
Molti scrittori provenienti da questa regione- come Tomizza, Sgorlon, Pasolini- o dal vicino Veneto- come Rigoni Stern e Zanzotto- si sono caratterizzati per un vagheggiamento di un’arcaica civiltà contadina ed un conseguente recupero del dialetto, lingua incontaminata dal Progresso, lingua del mondo contadino, di una civiltà umile ed integra, piena di valori, che l’anti-civiltà industriale ha definitivamente cancellato.
A differenza di altri Mauro Corona, nei romanzi L’ombra del bastone e Storia di Neve, ha  molto originalmente sfatato il mito, o luogo comune, di una presunta superiorità morale del mondo contadino, dipingendo la società rurale friulana di un tempo (siamo precisamente nei primi anni del ‘900) in modo assolutamente non idilliaco.
Il mondo contadino descritto da Corona è quello di un misero villaggio popolato da ‘strie’ (streghe), beoni, contrabbandieri, adulteri, imbroglioni ed assassini. Una tetra maledizione sembra essersi impossessata degli abitanti di questo posto dimenticato da Dio, i quali si macchiano indelebilmente dei più cruenti ed efferati delitti o tramano agghiaccianti insidie e raggiri, mostrandosi capaci di tutto, anche di avvelenare il proprio miglior amico, pur di sottrargli la moglie.
La povertà, l’isolamento, l’ignoranza finiscono per mettere a nudo il lato peggiore di questi pastori-agricoltori-artigiani, le cui usanze ed abitudini vengono però descritte con interesse da Corona. L’uomo, con i suoi vizi ed i suoi peccati, è sempre identico a sé stesso, sia che sia un contadino del passato (anzi lo è ancora di più, vista la sua condizione di miseria) sia un borghese del presente.
Per salvare gli abitanti di Erto da questo Inferno, Dio ha deciso di mandare tra di loro una creatura speciale, una Santa: la piccola Neve, una bambina che non sente mai freddo ed è capace di salvare le persone dalla morte.
Anche questa creatura speciale cadrà vittima dell’ingordigia e della cattiveria, di suo padre addirittura, che, fiutando l’affare di avere una figlia santa, non esiterà a mettere in piedi una macchina dei finti miracoli, che gli frutterà guadagni su guadagni, cinicamente spillati alla povera gente.
In questo dannato mondo contadino sembra non esserci Redenzione…

La ‘visione’ del mondo contadino di Mauro Corona, non incline al luogo comune, ha inspirato, insieme ad altre tristissime cose -tra l’altro- il  racconto che pubblicherò dopo questo post.

martedì 1 novembre 2011

Ognissanti (poesia)

Ognissanti

In una mattina di nebbia leggera,
In una città semideserta
            (poco traffico, ma quasi tutti i negozi comunque aperti)

In un sabato mattina qualsiasi,
che sa ancora di pioggia del giorno prima
(battelli agitati dai flutti),
c’è stanchezza lungo gli asfalti della città,
ancora sonno sulle palpebre, sulle saracinesche aperte a metà
                                       (in molti sono via per il week end)