domenica 2 ottobre 2011

L'asino d'oro. (Racconto)

L’asino d’oro

...figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas
et in se rursum mutuo nexu refectas ut mireris.

...e non ti stupiscano forme e fortune umane trasformate in altri aspetti che poi,
 in un rovesciamento di situazioni, ritornano ad essere quelle di prima
(Apuleio, L’asino d’oro)

Rosina   era un esemplare femmina di asino, robusto ma piuttosto avanti negli anni, il che si poteva arguire solo osservandola da vicino però. A tradire l’età infatti era il colore del pelo, una tonalità che non si poteva ascrivere a quel  rosso vivo, struggente, che colpisce l’occhio, come quello dei pampini nelle filare di viti verso ottobre inoltrato. Piuttosto si trattava di un rosso smorto, ruggine, ma che nemmeno avresti potuto paragonare a quello delle pennerrame o di stoviglie e pentolame vario. La terra dura e ferrosa delle Rocce forse, o quella che sbuca qua e là dai canneti di Iannizzi, potevano valere come riferimento.
Un colore comunque non uniforme, che si ingialliva talvolta od imbiancava tal altra, rivelando appieno finalmente, dopo un’analisi più approfondita, l’età ormai tarda dell’asino.
Che comunque continuava a fare bene il suo dovere, eh!: si caricava addosso infatti bisacce e padrone la mattina presto, e senza fare tante storie, si incamminava fino alle terre che si trovavano lontano, dall'altro lato della vallata.
Rosina era ancora un asino forte ed affidabile.
Ma soprattutto era l’ultimo asino del paese. L’unico ormai rimasto in circolazione.

A dire il vero questo particolare un poco inorgogliva il suo padrone, zi Pasqual, che nel complesso però poco badava a tali chiacchere, pensando solo alle sue giornate in campagna, così lontana da raggiungere.
Non aveva mai guidato o posseduto automobili, nè motocarri o motozappa o simili mezzi: ecco perchè aveva bisogno della vestia, del somaro insomma.
Erano inseparabili padrone ed animale e sembravano quasi una cosa sola, quando li vedevi sbucare da una curva o trottare giù per un sentiero di campagna.
A tratti poi  il colore dei pochi capelli rimasti a zi Pasqual, lasciati intravedere da quel cappello liso tenuto in testa ad ogni stagione, a tratti quei ciuffi  somigliavano al pelo del suo somaro.
Unti e sporchi, questi facevano parte di un generale aspetto di trascuratezza, insieme alla giacca sdrucita, alla barba semi- o mal rasata, ed a tutto il suo corredo visivo ed olfattivo. 
Ma zi Pasqual a dispetto di quanto sembrava era tutt’altro che miserabile, oh! questo lo sapevano bene in tanti ormai nel paese. E lo sapevano -e come!- soprattutto i suoi più stretti familiari.
I tre figli, due femmine ed un maschio, tutti e tre già da un pò maritati, ed in ispecial modo la moglie di lui, la signora Seppandonia.
Che, diciamolo fin da ora, lo aveva sposato (incastrato sarebbe meglio dire)  giovanissima, solo ed esclusivamente per le sue insospettabili eppur arcinote ricchezze. Terreni su terreni, iusi, iazzi e massarie, grano olio e vino, depositi e fior di contanti che zi Pasqual, unico figlio, avrebbe sicuramente ereditato dai suoi genitori, due contadini miserabili e lerci quanto lui. Esclusivamente nell’aspetto però. La Sostanza era di tutt’altra musica...e che musica avrebbe presto ascoltato ma soprattutto orchestrato la signora!!
Seppandonia infatti, dopo non molto, era riuscita a mettere mano su queste immense ricchezze, anche se  solo in parte, come avremo modo di spiegare più avanti.
Nel frattempo aveva fatto studiare e laureare il figlio maschio e maritato le altre due con dei buonissimi partiti: un imprenditore ed un medico del paese. Famiglie rispettabili e buoni portafogli: solo  queste credenziali potevano entrare a casa sua. Ed anche la moglie del figlio ovviamente era di una famiglia ricca. Lei ed i suoi figli erano ricchi e rispettabili e tutto il paese gli doveva portare rispetto!
La signora Seppandonia in sostanza sapeva il fatto suo
Solo che quando il paese vedeva quel   ‘r’matone’ del marito, zi Pasqual, così trasandato e miserabile nell’aspetto, era inevitabile che tutti pensavano che moglie e figli si erano fatti belli con la fatica e le privazioni di quel povero uomo. Con i suoi soldi.
Che gli erano riusciti a scucire, in un modo o nell’altro.
Già, perchè zi Pasqual era proprio un gran taccagno che se non fosse per la moglie, non avrebbe sborsato un bel niente. Non spendeva assolutamente nulla per sè, per vestirsi  o curarsi un minimo nell’aspetto, figurarsi per la moglie ed i figli, che per questo si vergognavano di lui, di vederlo ogni volta così miseramente sporco, sudato, puzzolente di ‘for’ e sempre con quel cavolo di asino appresso. Lo odiavano tutti in famiglia, da sempre, l’asino. O meglio gli asini.
Zi pasqual ne aveva cambiati tanti negli anni, con tanti nomi diversi: Bartolomeo, Napoleone, Peppinella.  Ma i figli ne ricordavano solo i tafani, lo sterco ed  il tanfo, soprattutto quando il padre rincasava la sera dalla campagna, faceva entrare l’asino di turno...in casa (nella loro casa!) ed attraversando l’ingresso-salotto (con le mattonelle ed i mobili nuovi!!), dove la tv a colori trasmetteva il tg della sera, portava l’asino in quella che aveva deciso doveva essere la sua stanza. Sì, l’asino aveva una stanza, non una stalla. Proprio così. In casa con loro.
Zi Pasqual era stato abituato così dai suoi genitori, a vivere con gli animali in casa e non c’era verso di fargli cambiare idea.
Per la sua testardaggine ed il modo di essere, di vestirsi, di vivere, la moglie, piano piano, si era allontanata da lui (non era mai stata innamorata, questo lo si era capito ). Non lo sopportava più. Ed era andata a vivere con le figlie. Faceva la signora nelle loro grandi case, pulite ed ordinate. Nelle case comprate dai mariti, in realtà, perchè <<la dote la deve portare il marito, lasciategli spendere i soldi a loro no? ce li hanno, noi invece abbiamo un padre miserabile, lo vedono tutti...>>
 E così con gli anni il marito non lo andava a trovare nemmeno più. La loro era a tutti gli effetti una separazione, ma queste cose bisogna camuffarle bene in un piccolo paese della Lucania. Faceva quindi finta di andare a casa sua quando lui non c’era, e poi ormai erano anziani non avrebbero spettegolato più di tanto in paese.
Ci mandava le figlie allora.
-Andate a vedere come sta vostro padre e fatevi dare una cosa di soldi. Mungetelo! Avete capito? Mungetelo quanto più potete!
Dove li tiene i soldi questo, non lo so...-
Ma zi Pasqual come già detto di soldi non ne scuciva e non ne lasciava vedere nemmeno l’ombra. Figurarsi. Non voleva spenderli nemmeno per sè, per ‘aggiustarsi’, comprandosi qualche indumento nuovo o facendo ristrutturare oppure imbiancare quel relitto di casa che oramai era ridotta ad una rrodda. A lui interessava solo la campagna, andarci prima dell’alba e ritornare quando il sole tramontava, a cavallo o a capezza della sua Rosina. Dormiva e mangiava da solo nella trascuratezza della sua casa, che sistemava alla meglio quando il brutto tempo gli impediva il lavoro nelle terre.
Ed in una notte di brutto tempo, trascorsa come sempre da solo a casa, dopo aver mangiato poche cose della sua terra ed essersi coricato prestissimo, zi Pasqual venne a mancare. Nel sonno.
Se ne accorse il figlio che ogni 10\14 giorni (a volte anche un mese però, dipendeva dagli impegni) gli faceva una breve visita di routine, sperando di ottenere dei soldi (si lamentava di guadagnare poco e di avere tante spese)  o addirittura di riuscire a convincere il padre a redigere un testamento. Lui era il maschio ed aveva studiato, quindi gli sarebbe spettato di più.
Così quella mattina dopo averlo ripetutamente chiamato e non avendo ricevuto risposta, pensò che fosse andato in campagna (il tempo era meno brutto del giorno prima) ed allora si recò in camera da letto con l’intenzione di frugare dappertutto, sicuro di trovare qualche rotolo di banconote nascosto da qualche parte. Operazione già effettuata invano altre volte ma che l’uomo sperava  avrebbe dato prima o poi i suoi frutti.
Trovò invece il padre coricato sul letto, con un’ espressione ed un colorito che subito gli fecero capire che era morto.
Era più che mai il momento buono per frugare dappertutto, specialmente addosso al padre, nel portafogli, nei vestiti, nel tascapane...nelle scarpe (  -questo li tiene addosso i soldi- aveva sempre pensato). Ma niente. Assolutamente niente.
Corse allora, con una rabbia amara in bocca ma riuscendo comunque a farsi sgorgare delle lacrime, a dare la notizia ai familiari. Che si disperarono con urla e pianti che poteva ben sentire tutto il vicinato.
Gli fecero quindi un sontuoso funerale, senza badare a spese e continuando ad urlare e disperarsi in modo toccante, per tutta la durata della funzione fino all’ultima condoglianza. Dopodichè, la sera, si riunirono a casa di una delle due sorelle, mamma e figli, ed iniziarono a parlare di cose più serie.
Le terre.
Tutte le numerose terre che aveva il padre. Molte delle quali in affitto, le cui rendite erano custodite gelosamente da Zi Pasqual.
Si dovevano trovare quei soldi. C’era tempo. Ma ora ci si doveva mettere subito d’accordo sulla spartizione delle terre, che sarebbero state immediatamente vendute.
E non fu facile. Stettero tutta la notte a discutere ed a litigare furiosamente.
- Madonna mia. Statevi zitti, non alzate la voce che ci sentono. Cosa deve pensare la gente?- implorava mamma Seppandonia che davanti a tutti e tre i figli ora si trovava in difficoltà, perchè a ciascuno di loro, isolatamente, aveva sempre detto che avrebbe avuto di più.
-Ma’, io sono maschio devo avere di più-
-Ma’, lui ha avuto i soldi per l’Università, a noi non ci hai fatto studiare-
-Ai figli di mia sorella hai sempre dato di più, ti pare che non lo so!-
E così via.
-Vediamo prima di trovare 'sti soldi, poi si vede-
Così la mattina dopo, prestissimo, andarono tutti e quattro al Comune a vedere la situazione catastale del padre. Ma il tecnico, compare di famiglia, gli dette subito una bruttissima notizia.
-Ma come non lo sapevate? Si è venduto tutto, tutte le terre che aveva, negli ultimi mesi. Si è lasciato solo un mozzetto di terra a codd quart, dove andava tutti i giorni con la vestia...-
-Ohimammamia! Stu disgraziat!- tuonò la voce di Seppandonia che divenne nera in volto come non mai...
Vendute, tutte vendute, ebbero modo di appurare in quei giorni. Ad acquirenti forestieri –ecco perchè non se ne sapeve nulla in paese- e pagate fior di quattrini! Erano tenute grandissime.
Ed i soldi? Che fine avevano fatto allora? In banca o in posta non aveva mai messo nulla quel vecchio.
Si recarono allora tutti nella casa di zi Pasqual, l’unica proprietà rimasta insieme a quel mozzetto di terra.
E giù a frugare dappertutto, anche nei tubi del cesso, sotto le mattonelle. Tutto sottosopra. Ma niente. Solo mucchi di 'rruagne e bagattelle.
Di tutti quei soldi nemmeno l’ombra.
Continuarono a rovistare per giorni nella casa e financo in campagna, in quel piccolo e lontano pezzo di terra, di cui ignoravano l’esistenza. Le terre, la 'rrobba esistevano per loro solo in quanto tradotte in denaro.


In tutto questo nessuno si era ricordato, figurarsi, dell’asino Rosina. Che rimasta chiusa nella piccola stalla, con quel freddo e senza acqua e fieno, resistette solo pochi giorni. Continuava a ragliare e scalciare sulla vecchia porta di legno fradicio ma nessuno la sentiva, in quel vecchio e diroccato vicolo antico dove ormai ci abitavano solo in tre: oltre zi Pasqual c’era un altro signore anziano e solo, che era diventato praticamente sordo e poi c’era un ragazzo, che quella settimana faceva il turno di notte alla SATA e tornava talmente stanco e già ubriaco (faceva delle soste prolungate al bar, dopo essere sceso dall’autobus) che non avrebbe potuto sentirla anche se gli ragliava in casa.
Così, dopo tre lunghi giorni di digiuno, una notte Rosina sfondò la porta della stalla e cominciò disorientata a vagare per la campagna circostante in cerca di erba.


Le ricerche del patrimonio intanto non dettero risultato alcuno. Ed al figlio maschio venne finalmente in mente l’idea di cercare nella piccola stalla, lo iuso. Non fecero minimamente caso alla porta sfondata nè all’assenza di  Rosina. Figurarsi se pensavano all’asino in quel momento.
Frugarono in ogni buco e dietro ogni trave marcia, ma niente. Solo ragnatele e sporcizia. Come a casa del padre.
Fu allora che iniziarono a prendere corpo  nei tre figli dei sospetti striscianti all’inizio come una serpe nera, ma   sempre più forti e violenti poi, assordanti come il raglio di un asino.
I figli di zi Pasqual erano ora arrivati al culmine dell’odio reciproco. Perchè all’unisono pensavano che qualcuno forse, anzi sicuramente, aveva avuto in segreto quei soldi, che non ci si spiegava dove fossero spariti, e quel qualcuno non aveva detto nulla a nessuno. E la madre sapeva, sicuramente sapeva ed era complice se non  artefice di uno di loro. Crebbe allora l’odio nero come la pece, come la sporcizia di quella stalla, della casa del padre, crebbe l’odio tra i figli ma soprattutto verso la madre. 

Intanto Rosina continuava a vagare libera per la campagna circostante, preoccupata solo di trovare erba fresca ed alta, assieme ad un posto riparato dove potesse poi dormire la notte. Peregrinò così, indisturbata, per molti giorni. La gente, quella poca che percorreva le strade di campagna, in automobile o in trattore, ed  a velocità sostenuta, non ci faceva assolutamente caso.
Tranne qualcuno, come quei due insospettabili amanti, sposati e con prole, che usavano incontrarsi spesso per le strade di campagna più appartate. Arrivavano all’appuntamento convenuto via sms ognuno con la propria auto, per non dare nell’occhio. Quella volta presero un grande spavento quando sentirono rumori in mezzo ai rami che ne celavano la vista, credendo di essere stati scoperti da qualcuno, ed invece si videro sbucare all’improvviso la testa di un somaro che li guardava in modo ebete mentre masticava delle foglie. -Ci sarà sicuramente il padrone andiamocene di qui, dobbiamo cambiare zona!-
Fu più sfortunata un altro giorno, invece, Rosina, quando si imbattè in una comitiva di ragazzi, ventenni su per giù, e tutti rigorosamente maschi, che trascorrevano la giornata a mangiare e divertirsi, nella campagna di uno di loro.
Rosina aveva smarrito, come sempre, l’orientamento, e si era trovata all’improvviso nella vigna adiacente la casetta, dove, accasciati o distesi per terra, 4 o 5 ragazzi con in mezzo una damigiana di vino, cantavano ed urlavano a voce altissima. Qualcuno, più in là, vomitava in piena campagna. C’erano dei piatti e bicchieri di carta sparpagliati tra la vigna. Qualcun’altro dormiva pesantemente, steso sulle zolle di terra. C’era musica a tutto volume, odore di carne arrosto.
Alla vista di un asino, tutto solo, i ragazzi divennero improvvisamente euforici, si sollevarono in piedi e subito lo circondarono, cercando in tutti i modi di montarci sopra. Ma l’euforia mista all’alcool li faceva cadere tutti e scivolare a terra.
Rosina in verità era bloccata dal terrore di quella strana situazione, da quella musica stridente e si opponeva senza troppa forza, con movimenti  frenati. Arrivarono allora tutti gli altri, una ventina circa, tutti o barcollanti, o rossi in viso o con le labbra nere di vino: chi aveva un pezzo di carne arrosto in mano, chi un piatto o un bicchiere di carta, chi a torso nudo. Molti fotografavano o facevano il video col telefonino all’animale e alla scena. Uno di loro si fece avanti dicendo:
-Lasciatemi montare sul mio destriero, miei prodi scudieri. Lasciatemelo cavalcare!-
Si avvicinò a Rosina che ripresasi, iniziava a recalcitrare maggiormente, con l’intenzione di salirci in groppa aiutato dai  compagni che tenevano fermo l’animale. Ma l’asino infuriatosi iniziò a scalciare e sobbalzare, mostrando la sua natura e la sua forza animalesca, fece sibilare dei calci a vuoto, se li scrollò con un movimento del corpo ed iniziò a correre come non aveva mai fatto, quasi fosse realmente un destriero.
Si allontanò giù per la vigna e scomparve tra alberi e  cespugli, seminando quei ragazzi che gli correvano dietro, inciampando e ruzzolando sulle gambe rese molli dall’alcool e dalle zolle fresche. Si ritrovarono a ridere come ebeti uno sull’altro. Fortuna che nessuno dei calci tirati dall’asino li aveva presi...
Il sole, tiepido,  stava per tramontare dietro le colline di viti ed ulivi, oltre le messi che inverdivano. Era ormai primavera, erano passati già dei mesi e della cospicua eredità di zio Pasquale non si era vista neanche la margiana.  

Era scoppiata una vera e propria guerra tra i suoi familiari: fratello contro sorelle, sorella contro sorella, ma soprattutto figli contro madre, la quale sapeva e nascondeva dove fossero finiti quei soldi. Ingiurie, offese, trame ed odi mal covati per lunghissimi anni funestavano ora la famiglia. Si impediva ad amici e figli di salutare fratelli e cugini, ci si rinfacciava di tutto.
E Rosina nel frattempo, nel suo semplice istinto animalesco, iniziava con il ritardo giustificabile di un somaro, a sentire la mancanza del paese, delle pietre che scheggiavano abitualmente i suoi zoccoli, della paglia dolciastra, del tepore della stalla e forse anche del suono del campanile.  Si avvicinò così, di sentiero in sentiero,  sempre di più al centro abitato, fino a trovare un prato di erba abbondante in mezzo al quale vi era un rudere che poteva farle da ricovero notturno. Era una piccolissima proprietà, edificabile, annessa ad una casa altrettanto minuscola dove abitavano il giovane S e la di lui madre.
Erano poveri, vivevano in quella piccola vecchia casa con i pochi soldi della pensione da vedova della madre e con i piccoli lavoretti che S riusciva a rimediare: imbianchino, manovale, bracciante nella raccolta olive.
Si era accorto, il ragazzo, di quell’asino vicino casa sua e l’aveva-il primo- riconosciuta. Ma è la vestia di zi Pasqual, è rimasta abbandonata!
Andò allora giustamente a riferirlo al figlio di zi Pasqual ma quello lo liquidò seccamente:
- E chi se ne fotte di quella vestia! Lo vieni a dire a me?- Guardandolo indispettito dall’alto in basso.
Consideravano lui, mamma e sorelle, S men che zero, una nullità. Parlargli era già una concessione. 
Lo avevano preso in odio da quando si era fidanzato con una delle nipoti di zi Pasqual, la figlia di una delle figlie. La moglie dell’imprenditore. La volevano già far sistemare con il figlio di un ricco parente congiunto, e invece chi si era andata a prendere...
-Devo morire di collera!- ripeteva ai figli Seppandonia- con tanti ragazzi giusto a quello si doveva prendere!-
Ma i due ragazzi si amavano profondamente, S. era intelligente e colto e studiava all’Università.
Per Seppandonia non c’era verso però. Cercò nei modi più subdoli, mai apertamente, di dissuadere la nipote, di farla sentire a disagio. Doveva convincersi da sola a lasciarlo senza mai poter recriminare nulla ai suoi familiari.
-Basta che vi volete bene, vivete la vostra vita- rispondevano Seppandonia ed i figli quando la nipote recriminava le loro mancanze o comportamenti strani nei confronti suoi e del fidanzato.
- Noi? Noi lo abbiamo accolto bene il ragazzo, gli vogliamo bene-
Ed intanto  nonna Seppandonia aveva escogitato  un modo segreto per farli lasciare. Aveva infatti appreso dalla madre, tanti anni fa, una potente ed infallibile fattura che poteva far legare o dividere per sempre due persone. Ci voleva solo un indumento di uno dei due, del sangue ed un pelo. Si creavano e rompevano legami così.
 Lei lo aveva già sperimentato con successo da giovane, quando riuscì, con una banale scusa, a farsi dare una camicia dal futuro marito zi Pasqual. Affatturò l’indumento e subito dopo si fece mettere incinta. Zi Pasqual dovette lasciare, senza nemmeno essersene reso conto,  la donna di cui si stava innamorando, che era proprio la madre di S. Ecco spiegate le radici dell’odio fomentato da Seppandonia. La fattura aveva funzionato. E funzionò anche, nel verso contrario con la  nipote di Seppandonia: lei e S non riuscirono ad avere più rapporti, ma solo improvvisi ed inspiegabili litigi. Si lasciarono, abbandonandosi alla depressione, alla rassegnazione.
-Finalmente ce lo siamo tolto davanti...-sentenziò soddisfatta Seppandonia- E’ stata una benedizione!-
Ecco perchè S fu liquidato seccamente e con gran fastidio.
-Ma se ne andasse affanculo quell’asino! Pensi che me lo venga a riprendere?-    si sentì rispondere.
Cosa fare allora, pensava il giovane, tenerselo lì vicino casa? Cacciarlo? Quello fingeva di allontanarsi ma poi ritornava. Cercare qualcuno che potesse prendersene cura? Ma chi, chi utilizzava ancora l’asino? E se qualche malintenzionato invece se impossessava, destindandolo ad un macello di contrabbando? Meglio lasciarlo stare vicino casa allora. Tanto non si allontanava e non dava nessun tipo di fastidio.
Anche se nemmeno a S suscitava tanta simpatia, come tutti gli asini in genere. Gli mettevano un pò paura perchè gli ricordavano quando da piccolo fu portato per una storta al dito dalla vecchia aggiustaossa del paese. Una signora simpatica che riusciva a rimettere le ossa al loro posto e toglieva anche di dosso cattivi spiriti, mal viend e pigliata d’uogghie.
Mentre S aspettava  di essere medicato portarono in braccio da un paese vicino un uomo dal viso sofferente ed accartocciato su se stesso che urlava tremendamente mentre l’anziana aggiustaossa cercava di mettergli a posto le costole incrinate. Si era fatto malissimo cadendo dall’asino che si era impennato all’improvviso, così riferiva.
S si convinse allora che gli asini fossero animali imprevedibili, solo apparentemente mansueti.
Rosina però, chissà perchè, gli ispirava fiducia, forse perchè come zi Pasqual non aveva nulla a che fare con quelle vere bestie che lo avevano fatto lasciare con la sua amata.
-Lascialo stare dov’è-gli disse l’anziana madre- non dà fastidio a nessuno. Se si stanca se ne andrà da solo.
E Rosina rimase indisturbata in quel prato per molti giorni, accontentandosi solo di brucare l’erba che diventava sempre più alta, mista a papaveri e tattaranni. Era ormai arrivata la festa padronale.
Anche quell’anno a S. fu proposto, per guadagnare qualcosa, di fare da guardiano per due notti alla statua del Santo Patrono, che dopo la prima processione veniva lasciato sul palco fino all’esibizione dei cantanti.
S. si metteva nella sua macchina, quando tutti abbandonavano la piazza, anche gli ultimi ubriachi, ed in compagnia di un libro o ascoltando la musica, aspettava che si facesse l’alba, spesso dormicchiando anche un pò. Tanto nessuno lo avrebbe controllato.
La prima notte riuscì a star sveglio, perchè pensò ininterrottamente alla sua amata, a quell’amore totale che non era mai finito, a tutti i sogni ed i progetti che avevano fatto insieme. L’aveva vista in processione, bellissima come sempre, si erano guardati intensamente e S. non trovò pace per tutta la notte. Perchè si erano lasciati? Per quale diavolo di motivo?
Anche la notte successiva S. non face che pensare a lei, ad i suoi occhi, il suo sorriso, a tutte le giornate trascorse insieme. Di fronte a lui c’era quel bellissimo Santo martire, con la sua luccicante armatura da guerriero, i lunghi capelli, gli occhi che imploravano il cielo.
Pensando al suo amore, inspiegabilmente interrotto, ed allo sguardo di lei che sicuramente gli aveva comunicato la stessa cosa, quella notte S. rivolse una lunga e silenziosa preghiera al Santo. Pregò intensamente con gli occhi e la voce del cuore, finchè non sopraggiunse una pesantezza sulle palpebre che lentamente iniziarono a chiudersi.
Ma un attimo prima che ci fosse buio e silenzio, S. mezzo confuso, con gli occhi aperti o chiusi, fu investito da una luce intensa ma gradevole, che proveniva dall’armatura del Santo, dal suo volto. Quel viso bellissimo ed  espressivo, ad un tratto... gli parlò  con voce soave:
-Esso è venuto fin da te, non a caso. Custodisce per te un’inaspettata fortuna. Devi cercare a fondo. Nel fondo del fondo...-
 Ed un attimo dopo S. stanchissimo si addormentò, senza pensare o ricordare  più nulla.
Lo svegliò il suono della banda musicale, la mattina, quando il Sole era già alto un bel pò.
-Cavolo è tardi, ho dormito tantissimo- pensò -speriamo che nessuno mi abbia visto dormire stanotte.
Si voltò un attimo a guardare il Santo. C’era. Tutto a posto. Corse allora a casa con l’intenzione di sciacquarsi e riposare un altro pò. Davanti alla sua abitazione, come sempre, c’era quel somaro che continuava placido a brucare l’erba, ondeggiando regolarmente la coda. Lo sguardo mezzo insonnolito di S. si posò inspiegabilmente sulle due grosse bisacce che l’animale portava in groppa, anche se il ragazzo continuò a pensare alle sue cose.
Si sdraiò stanchissimo sul letto, aveva mal di testa ed ancora sonno. E mentre si sfilava i pantaloni da sdraiato per mettere la tuta che portava in casa, dalla tasca gli cadde sul letto una figura del Santo. Era più bello e luminoso del solito. Lo sguardo di S indugiò su quel volto ed improvvisamente ebbe come un lampo. Si ricordò di colpo di quel sogno (sì, si era trattato di un sogno, anche se sembrava reale) della notte prima, di quella luce innaturale e di quelle parole pronunciate dal Santo:

Il somaro attraversò in quel momento la visuale della sua finestra. Le bisacce!
Una rapidissima associazione di pensieri convinse S a guardare in quelle bisacce, anche se un certo rispetto lo trattenne all’inizio dal frugare dentro la proprietà di un’altra persona. Ma poi pensò- il suo padrone è morto, nessuno pensa più nè a lui nè al suo somaro-. E nemmeno sentiva una negatività in quello che stava facendo. Chiese allora scusa al defunto padrone ed andò a controllare quelle sacche fatte di un materiale grezzo.
Le controllò per bene, fino in fondo, ma risultarono essere completamente vuote. Solo qualche fogliolina secca.
Eppure toccandole producevano uno strano rumore, come di carta e a volte anche di metallo. Si sentiva che c’era qualcosa se si toccava la parte bassa. Un luccichio di oro, a ben guardare, proveniva da una scucitura del fondo. Con le dita S allargò quella smagliatura di fili e si accorse che la bisaccia, tutte e due, contenevano un doppio fondo.
-Il fondo del fondo!- ma certo.
S si segnò col segno della croce, il Santo gli aveva realmente parlato e gli aveva rivelato un segreto:
soldi, tantissimi soldi, banconote su banconote, adeguatamente piegate e sistemate su quel doppio fondo. Ed in più oro: catenine, bracciali, tutto l’oro di famiglia che zi Pasqual era riuscito a nascondere dagli artigli dell’avida moglie. Un patrimonio immenso...
Ed in mezzo a tutto questo un bigliettino, scritto in uno stampato approssimativo e pieno di errori:

<<A chi si prenderà cura di questa povera bestia. L’unica che mi è stata fedele.>>



Da quel momento S diventò inaspettatamente ricco e devotissimo al Santo patrono. Rosina morì improvvisamente dopo solo due giorni e S le fece un adeguata sepoltura, proprio vicino casa sua. Che provvide a ristrutturare ed ingrandire. Continuò per sempre a ringraziare zi Pasqual, portandogli costantemente dei fiori sulla tomba, di cui i parenti nemmeno si accorgevano, nella loro visita di rito annuale, come era stato sempre per ogni cosa del resto. S. studiò e trovò un buon lavoro, ma soprattutto si riprese la sua amata, portandosela via da quel covo di bestie nere e senza cuore,  che continuarono a farsi la guerra tra loro, anche per quel briciolo di proprietà rimaste.

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