mercoledì 16 novembre 2011

"Che la festa cominci" , Niccolò Ammaniti



Nel suo penultimo romanzo Ammaniti, utilizzando una gigantesca, rutilante metafora (in cui si mescolano, ancor più che nei lavori precedenti, cinema, tv, cartoni, riviste, internet e centri commerciali), ha voluto far esplodere il trionfo- forzato oltre i limiti del trash o di quello che è stato chiamato pulp- di una società arrivata ormai al culmine della crisi. Forse. Perchè, come ammonisce uno dei tanti personaggi del libro: <<Il tempo delle figure di merda è finito, morto, sepolto. Se n’è andato per sempre con il vecchio millennio. Quelle che tu chiami figure di merda sono sprazzi di splendore mediatico che danno lustro al personaggio e che ti rendono più umano e simpatico>>.
Chi vuol consolarsi si consoli.
La narrazione di Che la festa cominci segue il tipico ritmo incalzante di Ammaniti, il quale recupera   quel registro comico e ‘fumettaro’ delle  origini, un’ atmosfera  che via via però diventa sempre più tragica, disgustosa, macabra.
Al centro di questo nuovo romanzo c’è una memorabile festa, che dovrà stupire proprio tutti (e vengono in mente analoghi parties, nella realtà, iperlussuosi, con tanto di esplosioni di vulcani artificiali) dove verrà radunata tutta la società italiana che conta: personaggi televisivi, chirurghi estetici, cantanti, soubrette, uomini d’affari.  Nomi e cognomi sono rigorosamente inventati.
Durante questo evento mondano si intrecceranno i destini dei tre protagonisti del romanzo: Saverio Moneta detto Mantos (leader della sparuta setta satanica Le Belve di Abbadon), lo scrittore Fabrizio Ciba e l’imprenditore venuto dal nulla Sasà Chiatti. Anche se quest’ultimo vorrà ostentare a tutti i costi il suo essersi realizzato, alla fine non sarà da meno degli altri due. Un fallito cioè. Un personaggio che, in realtà, ricorre in tutte le opere di Ammaniti, dal giovane Marco Donati protagonista del primo romanzo Branchie (un disperato, il quale sa che gli rimangono pochi mesi di vita a causa di un tumore), fino ad arrivare a  Rino Zena (Come Dio comanda), muratore precario, separato ed alcolizzato.
Sullo sfondo, anche se qui appena accennata, rimane ancora la periferia come luogo oramai fisso delle narrazioni di Ammaniti. Oriolo Romano (dove in una pizzeria si riuniscono le Belve di Abbadon )  rimanda al Comprensorio delle Isole, ad Ischiano Scalo, a Varrano.
La periferia diventa il luogo di una condizione di vita marginale, degradata.
E se gli altri romanzi di Ammaniti, per concludere, avevano un finale amaro, qui, nonostante tutto, sembra esserci una via di fuga. La risposta a questa società ormai alla deriva non arriverà dalla Letteratura, o meglio da quello che è diventata oggi anche la Letteratura, visto che lo scrittore Fabrizio Ciba (<<il terzo uomo più sexy d’Italia secondo il settimanale femminile Yes>>) dimostrerà di essere molto più cinico di tante vallette qualunque o rampanti imprenditori.
La risposta arriverà, in chiusura, dall’amore (assente nelle opere  precedenti), quello vero e semplice, che suggellerà un insolito lieto fine, al di sopra di tutto questo spaventoso panorama.

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