martedì 8 novembre 2011

‘Stregati’ dalla solitudine



Ci sono molte analogie che accomunano i romanzi vincitori di  due recenti e consecutivi  premi Strega(2008 e 2009): La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e Stabat mater di Tiziano Scarpa.
La storia di Cecilia, ragazza abbandonata e cresciuta in un orfanotrofio, e quelle di Mattia ed Alice, matematico lui, rinchiusosi in un volontario ed auto-lesionista autismo, adolescente e ragazza ‘diversa’ lei-per via di una gamba claudicante-che cerca in tutti i modi di somigliare alle sue coetanee, sono storie  dalle quali emerge  un unico tema di fondo: la solitudine (che non a caso dà il titolo al libro di Giordano).
Una solitudine che ‘attualizzata’ diventa innanzitutto incapacità di dialogare, disadattamento (<<Poi pensò che era la cosa più naturale del mondo e che proprio per questo lui non ne era capace>>, La solitudine dei numeri primi).  Per sforzarsi di diventare bella come le compagne di scuola, ed entrare così nel loro giro, Alice finisce per diventare anoressica. Questa sua malattia le si imprime come un segno indelebile e doloroso, quanto le cicatrici profondissime che ogni volta Mattia si procura per non sentire un dolore incessante, il rimorso che lo soffoca, da quando-bambino-ha abbandonato la sorellina disabile in un parco...per poter andare da solo ad una festa di compleanno.

Numerare ogni cosa, applicare a tutta la realtà una legge fisica o matematica, adesso gli serve a dare, spesso in modo forzato e paranoico, un senso al mondo esterno.
Cecilia (Stabat mater), lei il mondo esterno non lo vede nemmeno, è cresciuta tra gli spessi muri di un orfanotrofio e, quelle poche volte che alle trovatelle –destinate a diventar monache-viene  concessa un uscita, lei chiude gli occhi, preferendo sentire la musica, i rumori della realtà.
La solitudine amplificata ed allucinata di questa ragazza (che nel silenzio della notte vede e parla con una personificazione ‘anguicrinita’ della Morte) diventa vera e propria condizione esistenziale, meditazione filosofica di chi si trova al mondo senza una madre, senza un’identità. La solitudine diventa morte. Stabat mater lo si potrebbe definire come un romanzo sulla morte, un romanzo che trasuda morte dappertutto, come l’umidità nella città di Venezia (dove è ambientato): dal violino fatto di viscere di animali morti ed alberi abbattuti al macello che sporca di rosso i canali di Venezia; dal vecchio patrizio che muore ascoltando la musica fino all’immagine fortissima di Venezia <<cimitero di acqua e fango>>, dove, nel fondo dei canali si muovono come meduse disperate o giacciono nella melma, migliaia di corpicini di bambini non voluti ed occultati dalle madri con l’annegamento. Si potrebbe continuare così  citando ancora tante altre immagini del genere.
Venire al mondo, diventa in realtà un morire. In una delle sue tante fughe notturne, senza via di uscita, quando aveva ancora quattro anni, Cecilia ha assistito ad un parto furtivo di una suora e quell’immagine le si è distorta in una allucinazione: il bimbo nasce, esce fuori come un escremento azzannato da un serpente (il cordone ombelicale). Lei crede allora che tutti i bambini vengano morsi dal serpente, che gli innietta il suo veleno mortale: <<anche loro sono segnati, il loro destino gli è stato inoculato nella pancia...i bambini portano al centro del loro corpo una cicatrice di madre, una cicatrice di morte, per sempre>>.
 La morte è la nascita stessa, è annullamento, solitudine, assenza di identità; non vivere, non conoscere, non guardare.
Da questa condizione i tre protagonisti dei romanzi cercano di fuggire rifugiandosi nei loro talenti naturali, che rappresentano poi la loro diversità: la passione per la fotografia di Alice; la matematica per Mattia; la musica per Cecilia. Cercare in modi diversi di dare un senso ad un mondo che ne è privo, ad una realtà dolorosa: scoprire la perfezione matematica di ogni fenomeno, ogni avvenimento; fermare il tempo, catturarlo, impossessarsene; cancellare il dolore, le forme della realtà nell’<<idea pura>> della musica.
Analoga infine, sembra essere, per molti versi, anche la conclusione dei due romanzi. I due ‘numeri primi’ rimarranno soli, separati (freddo e meccanico il loro addio). Il romanzo di Giordano  si conclude con un desiderio di annullamento di Alice (che è il desiderio di fondo sotteso in entrambe le opere): lasciarsi trasportare dalla corrente di un fiume, lontano, in un posto dove nessuno ci conosce, così come è capitato a Michela, sorella ‘ritardata’ di Mattia, scomparsa per sempre e presumibilmente annegata. Una sensazione di abbandono, solitudine definitiva e piacevole, che Alice ha già provato da piccola, cadendo nella neve in una vallata deserta e rimanendovi una notte intera.
La neve, l’acqua che affoga ogni pensiero, ogni dolore; quella stessa acqua che avvolge e sommerge tutta la città di Venezia. Sarà attraverso il mare che Cecilia realizzerà la sua fuga finale.
Mattia tornerà  alla meccanica vita universitaria di una fredda città nordeuropea, dove continuerà ad azzerare ogni dolore e a numerare tutto ciò che non ha senso (il mondo, la vita, le persone, cioè tutto).
Cecilia, dopo aver suonato per l’ultima volta il suo violino, un’esecuzione struggente con cui scarica tutto il suo dolore, sceglie alla fine di esistere, in quel mondo a cui ha sempre negato l’esistenza: scappa dall’orfanotrofio e si imbarca verso l’Est, verso un Ignoto che decide di guardare, di respirare, di vivere.

La giovane, giovanissima letteratura italiana contemporanea è viva (lo testimoniano  due premi Strega consecutivi) ma sembra lanciarci un monito: stiamo morendo o forse siamo già morti, senza essercene accorti.
 Mario Masotti

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