sabato 5 novembre 2011

Tempi antichi (racconto)

                                                      Tempi antichi
                                                              
Tutto in paese, in autunno e primavera, profumava di calce, diventava bianco, candido come  dopo una nevicata. Davano bianco su grigio finché diventava bianco su bianco. In questo modo  la gente pensava di lavarsi  anche la coscienza. Mettendo a bianco il paese imbiancava peccati e  porcherie. Anche se nelle loro coscienze sapevano che non era così…
Mauro Corona, Storia di Neve



Sulle pietre diroccate di una vecchia forgia, sul muro ormai pericolante una scritta, fatta con lo spray. Una frase quasi incomprensibile, uno scarabocchio in realtà, firmata con lo pseudonimo di un writer: Brigante ’92.
Intorno a questo vecchio edificio ci sono altre case antiche e cascanti, tutte con i muri di pietra a vista, e poi archi, scalinate, finestrelle…
Di legno quasi fradicio invece, sono le porte ad arco di tante cantine che popolano il centro storico di questo piccolo paese della Lucania.
Nel pomeriggio di fine ottobre che sopravanza, mangiandosi sempre di più il giorno, rimangono aperte le porte delle cantine, mentre deboli luci elettriche penzolanti le illuminano fino a sera inoltrata. Si sentono rumori e voci, c’è un gran daffare. Damigiane sciacquate e tini di plastica nera aspettano vicino le fontane. Nell’aria l’odore del mosto, che forma sottili rigagnoli tra le scanalature della pietra antica, scorrendo per i lastricati o lungo i gradini di vicoli e vicoletti.
Un odore che dà alla testa mentre il Sole, rosso come le foglie in questa stagione, tramonta  in anticipo in un cielo sempre più freddo.
Se lo inghiottono le valli il Sole, assieme agli ultimi gridi delle rondini.
E da ogni vallata sale, nel grande imbuto del cielo, lo sferragliare delle motozappa, dei piccoli mezzi agricoli che tornano in paese carichi di grappoli d’uva.
Le cantine rimangono aperte, c’è un gran daffare in questo mese di ottobre.
Ed in una delle cantine del paese il signor Giuseppe ebbe la particolare idea di festeggiare la laurea della figlia, che era caduta proprio nella sessione autunnale.

Doveva essere una festa come si doveva quella, un gran festa per la figlia che era stata la prima a laurearsi, tra tutti quelli del suo anno di nascita. Ci teneva a ribadirlo a tutti il signor Giuseppe: la prima a laurearsi. E così l’aveva portata insieme ai confetti nelle case dei suoi amici e compari, per prendersi orgogliosamente gli auguri e vantare questo primato.
Nel contempo gli era venuta la brillante idea di far coincidere la festa di laurea con il travaso del vino nuovo, perché lui ci teneva molto alle tradizioni ed alla campagna.
Guidava tutto fiero il suo trattorino infatti, passando anche attraverso il corso del paese, non appena aveva un momento libero. Era figlio di contadini, veniva da una famiglia povera ma era riuscito, col tempo, a diventare direttore di un piccolo ufficio postale.
Ed adesso la figlia gli aveva dato questa grande soddisfazione: laureata, alla pari di tanti dottori in Legge, Medicina, Ingegneria, verso i quali il signor Giuseppe aveva sempre subito un complesso di inferiorità. Laureata come loro e come i loro figli, anzi meglio di loro: la prima ad essersi laureata della sua classe.
Adesso il signor Giuseppe si godeva tutto il suo riscatto, la sua rivincita, con questa festa per la quale non si era per nulla risparmiato. Doveva fare un figurone con tutti, ecco perché aveva preparato ogni sorta di ben di Dio. C’era di tutto: accanto a piatti tradizionali, che si cucinavano una volta durante la vendemmia od il travaso, come trippa, baccalà o cuccìa di grano e legumi, aveva ordinato enormi vassoi di pizzette, rustici, panzerotti e pasticcini, con ogni sorta di bibita per bambini e donne. Vino, ovviamente, ce n’era a volontà.
Ci teneva a ‘comparire’, soprattutto verso molte persone importanti, invitate alla festa, alle quali era legato da lontani rapporti di parentela e comparizia. Adesso uno di loro doveva fottergli a sistemargli la figlia, pensava, era giunto il suo turno per ‘chiedere’.
Ecco perché aveva allestito quel lauto, anche se singolare, banchetto, per il quale si era prodigato nel ripulire e sistemare la sua cantina: un’antica grotta nel tufo, che scendeva per circa 6-7 metri sotto terra, in uno degli angoli più belli del centro storico. Intorno alle pareti erano sistemate le botti in vetroresina, quelle che ormai si utilizzavano da più di qualche anno. Negli angoli più nascosti erano ammassate vecchie botti di legno, di varia dimensione; alcune ancora in buono stato, belle da vedersi; altre mezze infradiciate.
Il signor Giuseppe aveva sistemato una griglia per la carne all’ingresso e faceva gli onori di casa, salendo e scendendo le scale, vantandosi oltre che, ovviamente, della bravura della figlia, della bellezza di quella cantina, che aveva saputo conservare; della bontà del suo vino, fatto rigorosamente con le proprie mani (e piedi); della vigna, di cui si prendeva sistematicamente cura (da solo!), e della bontà del cibo, di quelle ricette semplici di una volta.
E proprio sulla bellezza dei tempi antichi era caduta la discussione tra lui e gli invitati. Nel frattempo un radione, sistemato sopra vecchi torchi, diffondeva musica house, messa dagli amici della figlia. Alcuni se ne stavano seduti,  armamentando con il loro smartphone. Dei bambini correvano e giocavano in quello spazio non proprio larghissimo.
-Eeeeh….!!! Una volta si viveva meglio – diceva il signor Giuseppe mentre girava pezzi di agnello sulla graticola- non c’era tutta questa ricchezza che c’è ora, questa cultura, queste comodità. La gente si aiutava a vicenda, ci si voleva bene: io venivo a darti una mano nella vendemmia e tu facevi altrettanto. Per qualsiasi cosa era così.
-C’era rispetto, educazione combà! Adesso i giovani non ti salutano per niente, sanno solo dire parolacce!- Aveva aggiunto Giovanni, compare di battesimo della figlia di Giuseppe (evidentemente alludendo proprio alla scostumatezza della ragazza).
Accanto a lui, Antonio, un altro invitato, ex collega di Giuseppe, cercava di seguire quel discorso- che trovava a dir il vero un po’ frusto e banale- ma, chissà perché, il suo sguardo era attirato da una botte, quella che sembrava, oltre che la più grande, anche la più antica di tutte, sistemata sopra una sorta di cumulo inaccessibile di altre botti, nell’angolo più buio e nascosto di quella grotta-cantina.
-‘Ai tempi di una volta’  la gente mangiava pane e cipolla ma era contenta!-
-Hai ragione. C’era povertà ma si stava bene…-
-Antò hai preso il pezzo di carne?-
-Eh…??Ah si…l’ho preso- rispose Antonio sempre più distratto. Quell’angolo di cantina lo iniziava a turbare ora.
-Tutta colpa della Democrazia Cristiana! Stanno tutti nella ‘ventra della vacca’ ora- disse Michele, che però sembrava essersi dimenticato di aver ricevuto, un tempo, un comodo posto da poliziotto a Potenza, grazie alla raccomandazione di un potente uomo della DC locale.
-Ci vorrebbe la Destra ma non quella di adesso, quella di una volta! Alla gente gli passava la voglia di rubare! Fosse anche una gallina!-
Il discorso in realtà, tra grida di bambini, musica ed altre discussioni, stava adesso ramificandosi troppo ed Antonio, colpa anche un po’ del vino bevuto, non riusciva a tenerne il filo. Ma era soprattutto quella botte in particolare che lo distoglieva da ogni cosa.
-Ma cosa dovevano rubare!? C’era povertà e c’era rispetto! Nessuno ti toccava nulla , la gente lasciava le porte di casa sempre aperte. Erano sempre pronti a darti una mano-
-Nessuno ti sfiorava un capello, anche se giravi tardi la sera. Vallo a fare ora, va’!
-Non si capisce più niente ora! Si ubriacano, si drogano. Corrono con le macchine fino alla mattina. Ne senti di tutti i colori ai telegiornali. Morti a destra e sinistra. Stupri. E chi si azzarda più a mand...-

Improvvisamente il discorso fu troncato da un boato fortissimo.
L’acustica di quell’ipogeo aveva notevolmente amplificato una forte scossa di terremoto, che aveva fatto tremare tutto.
In quel trambusto tutto aveva vibrato e vacillato. Le botti ammonticchiate della cantina erano rovinate precipitosamente al suolo. La più grande, quella che fino ad allora aveva inspiegabilmente attirato lo sguardo di Antonio, era andata a fracassarsi proprio davanti agli occhi di tutti gli invitati, che, atterriti e pietrificati, non avevano potuto fare altro, sopraggiunta quella scossa, che addossarsi alle fredde pareti di tufo della cantina.
Ma gli animi già sconvolti dei presenti si raggelarono di colpo, non appena assistettero a ciò che quella botte aveva riversato dinanzi ai loro occhi.
Dalle doghe ormai fradicie era venuta fuori una poltiglia terribilmente nera e densa, un ammasso di vinaccia e materia organica putrefatta, in mezzo alla quale era ben distinguibile…un cadavere.
Rinsecchito, consumato, deformato e tutto annerito e sfigurato da quella rivoltante sostanza. Che comunque lo aveva preservato dalla definitiva consunzione.
Intorno al collo si poteva benissimo notare, quasi integra, una grossa corda.
L’odore di morte, chissà per quanto tempo costipata e nascosta là dentro, un tanfo indicibile assalì violentemente le narici di tutti.


I fatti erano andati pressapoco così.
Moltissimi anni prima, forse un secolo o più, in quel tranquillo paesino era capitato, si suppone per lavoro, un forestiero. Durante i primissimi giorni di permanenza quest’uomo si era trovato a trascorrere una serata in una cantina, proprio quella stessa dove adesso si stava festeggiando.
Qui aveva mangiato, bevuto e giocato alla passatella con alcuni abitanti del paese ma all’improvviso, evidentemente quando il consumo di vino era considerevolmente aumentato, nella cantina era scoppiata una brusca lite-non si sa per quale motivo- in cui era stato coinvolto. Anzi la lite lo vedeva protagonista ed era subito degenerata al punto che alcuni dei presenti lo avevano ucciso. Impiccandolo. Così, all’improvviso e barbaramente, senza un apparente motivo e senza nemmeno sapere chi fosse quell’uomo.
Di quel corpo non si era saputo più niente, tutto era stato messo a tacere e per evitare guai con i gendarmi, gli autori di quel orrendo delitto avevano lasciato il paese, chi emigrando in altri paesi, chi in America, chi nascondendosi in un vicino bosco e diventando ‘carbonaio’.
Il signor Giuseppe discendeva dalla famiglia di uno degli autori di quel crudele omicidio, commesso per futilissimi motivi.
Antonio invece apparteneva alla famiglia di quell’uomo ucciso, discendendo dalla sorella di costui, venuta col fratello in quel paese e lì stabilitasi, dopo averne sposato un abitante.
Ecco spiegata l’inquietudine di Antonio quella sera…



Dopo alcuni mesi trascorsi da quel brutto episodio, Antonio di trovava a camminare per il corso di via Pretoria, a Potenza, e provava la stessa soffocante inquietudine (anzi la sentiva molto più forte) soprattutto quando si avvicinava alla Chiesa della Trinità.
Ci sarebbero voluti diciotto lunghissimi anni, prima che venisse fuori solo la cima di una Verità che, si spera, potrà rivelarsi in tutta la sua nera ed agghiacciante totalità, senza risparmiare nessuno.

Ad Elisa Claps

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