lunedì 30 gennaio 2012

Serata d’inverno

Il principe Burian, nobile vento, signore delle sterminate steppe siberiane, quell’inverno era arrivato più potente del solito sull’Appennino dell’Italia meridionale.
Una bufera improvvisa di neve, che non aveva nessuna intenzione di smettere da giorni, ormai, aveva invaso non solo le montagne ma anche le coste, fino ai paludosi lidi ionici ed alle estreme e selvagge sponde del Salento, imbiancando cespugli di capperi e di fichi d’india. Tutto era ricoperto dalla neve siberiana, il soffio gelido di Burian si era spinto fin sulle coste nordafricane. La catena dell’Atlante era interamente ricoperta di neve.
Un sibilo continuo attraversava ora i vicoli pietrosi, gli archi e le scalinate di un piccolo paese lucano. Dalle minute finestre del centro storico pendevano ghiaccioli e di grossi ed opachi ghiaccioli erano fatte le punte delle lance, le armi dei soldati di Burian. Le avanguardie erano precedute dagli spiriti di enormi lupi con il muso protéso. Il loro sguardo si perdeva compiaciuto tra i multiformi tratturi e nelle silenziose vallate il loro ululato si confondeva con i sibili della tormenta.
E così, spingendosi fin dove non si era mai spinto, il principe Burian quella volta si era portato dietro tutta la propria corte, un seguito di spiriti che si muovevano ovunque come il sospiro incessante del principe: una bufera caotica che non aveva mai fine.
Tutto era successo l’Estate precedente.
Quell’agosto la Brezza d’Estate, regina dei venti del Sud, si era spinta fino in Crimea e da lì era passata in Siberia, dove aveva voluto cavalcare in quelle sterminate praterie assieme alle sue schiere di cavalieri berberi.
Burian, che amava, anche lui, cavalcare la steppa, la vide e subito s’innamorò di quei lunghi riccioli e di quegli occhi scuri. Quella visione, purtroppo, durò pochissimo: la mattina dopo, infatti, la regina era già scomparsa. Per giorni e giorni allora Burian si tormentò, sibilando sempre più forte, fino a che non si decise a partire con tutta la sua corte, intenzionato a trovare a tutti i costi quella bellissima donna.

La neve adesso, continuamente soffiata e rivoltata dal vento, una sottilissima polvere brillante (Burian voleva creare gioielli di ogni tipo per la sua amata) entrava in tutte le fessure. Nessuna difficoltà a penetrare nelle vecchie porte di legno delle cantine di quel paesino lucano. In molte di queste si erano infilati gli spiriti di guerrieri cosacchi, tartari, mongoli: manipoli di baffuti omaccioni che facevano bisboccia al ritmo di violini tzigani. Fuori sostavano i loro cavalli, accanto ad ordinatissime ‘mete’ di legna, mentre le sagome delle loro criniere si armonizzavano perfettamente con le meravigliose, ondulate forme plasmate dalla bufera.
Nevicava e nevicava… e la neve aveva e forme protése, tormentate del doloroso amore di Burian: guglie, pinnacoli, dune, vortici. Un silenzioso paesaggio arabescato.

Nel piccolo pub del paese, invece, si stavano raccogliendo o rifugiando tutti i ragazzi, quella sera più numerosi del solito. Dopo essersi tolti lo sfizio di camminare in mezzo a tanta neve e, alcuni anche di fare a palle, si scuotevano, appena entrati, vestiti, cappelli, guanti e sciarpe.
C’era musica ad alto volume, odore di panini o toast ed in quei pochi metri quadrati adesso si stava veramente spalla a spalla.
C’era soprattutto molto alcool in circolo: sul bancone, nell’aria, nei respiri e nel sangue.
Vicino al bancone si erano formati dei gruppetti di persone, ci si offriva da bere a vicenda. Risate, urla, bicchieri e soldi che passavano sopra le teste. Ai tavolini i giocava a carte, a soldi o consumazione, circondati da un muro umano di spettatori-commentatori. Andare in bagno, con quella bolgia, era un’impresa quasi impossibile.
Ernesto aveva già bevuto più di un bicchiere, era dal pomeriggio che si trovava lì. Era uscito con due amici per fumarsi una “bomba”. Fumo buono, pesante. Dopo aver bevuto un po’, una canna ti fa mancare le forze, la testa gira, le gambe vacillano.
Ad Ernesto quell’effetto durava poco però, 10 minuti circa. Appena rientrato nel bar aveva preso a bere di nuovo, birra questa volta. Non voleva andare giù pesante. La birra, dopo aver fumato, gli addolciva l’effetto. Era rimasto infatti imbambolato, silenzioso per un’altra decina di minuti, dopo di che la birra aveva iniziato il suo dovere. Tutto si addolciva, diventavano molli anche i pensieri, per un attimo solitari, tristi, si fondevano poi con quelli di tutti. Ernesto iniziava a sorridere o ridere senza motivo. Gli erano tutti simpatici, salutava tutti e con tutti scherzava. In quel buco poi ci si ritrovava faccia a faccia, fiato a fiato anche con gente insignificante o di merda, che magari ti stava sul cazzo. Gli sembravano tutti amici quella sera e tutti su di giri.
La birra faceva venire anche da pisciare però e raggiungere il bagno in fondo al locale, ondeggiare, scivolare e spintonarsi in quella piccola marea umana, anche quello piaceva ad Ernesto quella sera.
Nel frattempo altre birre, altri brindisi, altri <<cosa prendi?>>, la dolce spensierata energia dell’alcool. Grida, battute, musica, chiacchere e risate si fondevano nella testa di Ernesto. Era gioviale con tutti.
Il suo gruppetto si era allargato, adesso erano in 5. Vecchi amici che non si ritrovavano da tempo. Tutti allegri e felici.
(Fuori, nel frattempo, una sottilissima farina di neve veniva “pulvineggiata” dal vento, una polvere azzurrina, brillante, una magia che nessuno notava.)
-Perché non giochiamo alla “femmina”?- fu lanciata la proposta da uno di loro.
-Si si. Piglia le carte-
-Giochiamo. Si- erano tutti d’accordo.
-La vuoi la carta?- chiese A., amico di Ernesto, a C., che era lì vicino a loro e parlava già da un po’ con la barista, non facendo parte di nessun gruppetto in particolare.
-Si, dammella- rispose distratto C. che lì in mezzo sembrava essere anche quello che aveva bevuto meno di tutti.
Presero allora uno dei tanti mazzi consumati di carte sul bancone, mazzi che passavano da una mano all’altra in quelle buie e fredde sere d’inverno.
-Giochiamo alla “femmina prena” ok?-
-Va bene-
Scelta del palo. Bastoni.
8,9 e 10 son le carte che contano. 10 è padrone, 9 sotto. 9 invita, 10 decide se accettare o meno. Si creano quindi rivalità e sfide, solo per gioco però. L’8 interviene a sorpresa e si beve tutto.
Durante i primi giri del gioco bevvero un po’ tutti, chi più chi meno La birra Peroni aveva un sapore dolciastro che piaceva ad Ernesto. La bevevano nei bicchierini da vino, accompagnandola con patatine, toast o crackers che divoravano letteralmente, visto che la birra e l’alcool in generale ti creano un buco, un vuoto nello stomaco che vorresti riempire in tutti i modi.  
Ad Ernesto poi piaceva l’effetto della birra, perché ti mantiene su un livello standard, non ti dà depressione o sonno come il vino, né ti fa fare cazzate di cui perdi coscienza, come i superalcolici. La birra lo rendeva gioviale, amicone, simpatico e sempre lucido.
Anche C. gli stava simpatico quella sera, pur se giocava tanto per con loro, non li cacava più di tanto e continuava a parlare, ingrifato, a cercare di parlare con la barista che gli dava retta poco o niente. Era piuttosto brutto, pittoresco e doveva avere una ‘fame’ arretrata con le donne. C. parlava con tutti quella sera, a tutti rivolgeva parole, battute, sorrisi.
Verso il sesto giro del gioco intanto, ad Ernesto capitò la “femmina”, 8 di denari e gli venne voglia di fare un balletto ma si trattenne per non farsi accorgere. Il 9 andò ad un suo amico ed il 10 a C., he comandava sugli inviti. Ernesto non fu assolutamente invitato, assieme a un altro. Così è il gioco. L’altro suo amico aveva portato alcuni “olmi” prima, ora scontava.
Si era al penultimo giro di birra della giocata. Ernesto aveva tanta sete, almeno un bicchiere. Era “a livello” e voleva prolungare questo effetto nonché mandare giù quel cracker che gli impastava la bocca. –Me li scolo tutti io questi- pensò-tanto c’è l’ultima invitata ancora-
Così fece, scoprì l’8 di bastoni su una invitata di C. e se li bevve tutti, anche un po’ a forza. C. lo guardò di traverso. – Cazzo vuoi?- pensò Ernesto, mi hai portato di nuovo olmo. Forse lo avrebbe invitato alla fine, accontentando tutti, ma…chi se ne fregava. Ernesto si scolò l birre mentre la musica pompava, gli piaceva fare l’idiota sule note di quella canzone idiota: <<You e me on Discovery Channel…>>. Cazzo voleva dire??: <<Io e te sul canale Discovery? Quello di Sky? Boh…>>.
Adesso toccava a lui fare carte che erano tutte alla rinfusa su quel bancone dove non si capiva più niente: bicchieri e bottiglie, panini, tovaglioli, monete, strofinacci…Il pub si era riempito fino all’orlo ormai, giocavano uno addosso all’altro in mezzo metro quadro.
Ernesto riorganizzò il mazzo, cantando e ballando. Incartò e distribuì le carte in tanti mazzetti da sei.
-A che pal è la femmina?-
-Denari!- rispose Giorgio.
Ernesto finì di dare le carte allora. Doveva farlo prima che si scegliesse il palo comunque, per prassi. Nessuno disse niente. Sull’ultimo mazzetto però mancava una carta. L’ultimo mazzetto era proprio quello di C., che aveva smesso all’improvviso di parlare con la barista e stava ora guardando con attenzione Ernesto mentre dava le carte.
-Dov’è la carta?- gli chiese.
-E’ imbroglio. Daccapo- rispose Ernesto tranquillo. Capita spesso nel gioco.
-Dove sono le altre carte?- chiese C. Per formare sei mazzetti da sei occorreva infatti scartare quattro carte neutre che venivano messe da parte.
-Sono qui, sono qui…- rispose Ernesto indicandole su bancone. Notò che C. era troppo serio. Voleva tranquillizzarlo, non era successo nulla, si sarebbe rifatto il gioco.
- Manca una carta nel mazzo allora. Che fine ha fatto?- Disse C.
Tutti si guardarono intorno e a terra. Ricontarono le carte. Niente.
-Manca una carta!- ripetè C. alterato adesso- fammi vedere tutti i mazzetti!-
Controllò le carte. Niente.
-Manca l’otto di denari…!!-
-E che cazzo, sembra che l’ho fatto apposta!- disse Ernesto sorridendo. L’otto di denari l’aveva lui nella precedente giocata. Ora non c’era. Sarebbe capitato proprio a C., cui mancava una carta.
Continuando a sorridere Ernesto fece finta di mettersi le mani in tasca, scheranzdo, come se avesse nascosta la carta. Ma non ebbe nemmeno finito di dirlo che i suoi riflessi, allentatissimi, percepirono un movimento velocissimo davanti che non riuscì a decifrare. Vide solo il dorso della mano di C., ossuta e callosa, lo vide a distanza ravvicinatissima e sentì un improvviso bruciore ad un occhio. Poi non ricordò più nulla.
-Io già non ti posso digerire, brutto stordito…a chi vuoi pigliare per culo!!??- C. gli si era scagliato contro come un falco, con un lungo pugno mirato e preciso nell’occhio sinistro. Una violenza improvvisa e inspiegabile che lasciò tutti in silenzio. Una violenza covata da tempo forse. Ernesto era caduto a terra come un sacco e C. continuò ad infierire con calci su di lui.
Tutto questo era successo in una frazione di secondo, il tempo che gli amici di Ernesto si resero conto e due di loro si gettarono su C. per braccarlo. Così facendo avevano fatto perdere l’equilibrio a C. che se li trascinò, con tutta la sua mole, a terra, insieme ad altre tre o quattro persone che bevevano al bancone per i fatti loro.
Vedendo C. cadere a terra, suo cugino Mariano, dall’altro lato del pub, scattò subito sugli attenti e si fiondò senza pensarci in aiuto del cugino per menare palate alla cieca. Era la legge immediata della loro famiglia: difendersi e farsi rispettare, sempre.
Spinse con violenza ed urtò chiunque gli era di ostacolo. Il pub divenne una bolgia. Urla, spinte, cadute, pugni e calci tra tutti…
Alcuni ragazzi portarono fuori Ernesto svenuto. Arrivò l’ambulanza con le catene. La sirena aveva un suono ovattato. Arrivarono anche i Carabinieri con la Land Rover e l’Alfa. Si erano riversati tutti fuori dal pub ora, si avvicinarono anche tanti curiosi, molti usciti apposta di casa. Le luci blu dei lampeggianti illuminavano tutto il paesaggio innevato, i fiocchi fittissimi, che si incrociavano in ogni direzione. Tutto il cielo ne era pieno.


Dopo circa una settimana il principe Burian dovette lasciare le terre del Sud, ma ancora nevicava: una neve pesante, però, molliccia e zuppa di acqua. Era arrivato il gelido vento del Nord, il Vento Polare, un vecchio con una tunica bianca ed una lunga barba grigio-azzurra, come le tristi nuvole d’inverno.
Un vento solitario che spirava lento, quasi un rantolo, e si portava con sé tutti gli acciacchi e l’umidità dei suoi reumatismi. Dopo solo un giorno la neve iniziava già a sciogliersi e diventava sempre più sporca. Una ‘plecca’ giallognola o nerastra che faceva clac clac sotto i piedi.
Cadevano pesanti pezzi di neve dagli alberi e dai tetti. Al posto dei ghiaccioli ora c’era acqua che scorreva nelle grondaie, lungo le ‘canale’. E scorreva acqua anche nelle canaline di scolo del corso di quel piccolo paese lucano, acqua che lentamente si mangiava tutta la neve ammonticchiata nei giorni precedenti. Si formavano rigagnoli neri, pieni di cartacce di tutti i generi. I grandi mucchi di neve si assottigliavano, ricomparivano pietre, asfalto, ringhiere, tegole.
Tra uno di questi mucchi, proprio vicino al pub, si intravedeva una carta dalla figura colorata: una carta da gioco, una carta da Scopa.
Era un Otto di denari tutto stropicciato…


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