giovedì 5 gennaio 2012

Il caos e la parola. Carlo Emilio Gadda (la letteratura italiana negli anni '60 e '70)


Partiremo, nelle nostre considerazioni, da un saggio molto importante per la letteratura contemporanea, italiana ed internazionale, vale a dire dalle Lezioni Americane di Italo Calvino, pubblicate non molti anni orsono (1988[1]) ed ancora di straordinaria attualità.
La quinta ed ultima di queste lezioni, quella dedicata alla Molteplicità, considerata come una delle principali sfide per la letteratura del nuovo millennio, si apre con una lunghissima citazione tratta da  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana[2]  di Carlo Emilio Gadda, il celebre episodio del ritrovamento dei gioielli in casa Pestalozzi.
Calvino, nel corso di questa sua lezione, dichiara di voler estendere, in realtà, le proprie considerazioni sulla Molteplicità a quello che, secondo lui, rappresenta l’intero romanzo contemporaneo, il quale verrebbe a configurarsi <<come enciclopedia, come metodo di conoscenza e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo>>[3].
Uno dei primi autori del romanzo contemporaneo, così come inteso da Calvino, sarebbe allora  proprio lo scrittore Carlo Emilio Gadda, un uomo che vedeva il mondo <<come un sistema di sistemi in cui ogni singolo sistema condiziona gli altri e ne è condizionato>>[4], secondo un’immagine complessivamente antigerarchica e reticolare, oltre che raffigurabile, spesso,  come un garbuglio, un groviglio, un ‘pasticcio’ appunto.
Cominciamo da questa osservazione.
Ad una visione del mondo complessa ed intricata, qual’è quella gaddiana, corrisponde una teoria della letteratura ed una scrittura che debbano rendere conto di questa complicatezza. Dietro l’opera dell’Ingegnere vi è infatti una vera e propria gnoseologia, una filosofia di fondo, che sono state messe molto bene in luce da Gian Carlo Roscioni nel celeberrimo saggio  La disarmonia prestabilita[5], attraverso un approfondito studio della pagina scritta gaddiana.
Roscioni inizia la sua disamina partendo (come farà Calvino) proprio dall’analisi di una delle tante ed importanti digressioni di cui è disseminata la produzione di Gadda: da una apparentemente semplice descrizione di gioielli che si moltiplica e si dilata a dismisura, svelando o creando interconnessioni e collegamenti di ogni tipo (storico, geologico, geografico, psicologico, onirico etc.) tra un monile e l’altro, tra tutti i dati della realtà. Ecco allora rappresentato il reticolo o il groviglio.
Inoltre, quello che dovrebbe essere, nell’economia generale del romanzo, un pezzo secondario, diventa più importante, assieme ad altre digressioni, della vicenda principale stessa, che viene così a  ramificarsi (rispecchiando la realtà) in una serie infinita di interconnessioni.
Ad un livello strutturale un’analoga funzione assolve la scelta di lasciare il Pasticciaccio  come romanzo incompiuto, come caso irrisolto (anche se solo nella mente del lettore e non in quella dell’autore e del commissario protagonista).
Ma è soprattutto nell’utilizzo di un particolare linguaggio letterario che si riscontrano le peculiarità di questo scrittore: numerose sono infatti le tecniche, le figure retoriche e grammaticali che permettono di parlare di uno ‘stile’ gaddiano. A cominciare dal ben conosciuto pastiche linguistico o plurilinguismo, dal fondere insieme cioè diversi registri linguistici, con l’evidente intento di creare un garbuglio e dilatare a dismisura gli aspetti della realtà. Un intento perseguito anche attraverso una delle figure più frequenti della prosa gaddiana: il catalogo o enumerazione.
Altri espedienti quali: sinchisi ed arbitri storico-topografici, anfibologie, neoformazioni ed incroci verbali, contribuiscono infine a rafforzare la particolare visione del mondo dello scrittore milanese, creando sovrapposizioni, ambiguità, confusioni e complicazioni.
Resta comunque, al fondo, una tendenza geometrizzante[6] di Gadda, che dispone un senso all’informe, una tendenza razionalizzante che consente di risalire il deflusso delle significazioni e sdipanare ogni volta il gomitolo del reale.
La realtà è complessità, è un groviglio di interrelazioni ed infiniti collegamenti. La realtà rischia di diventare caos e sfuggire dalle mani di chi la osserva, cercando di descriverla. Ma lo scrittore non si arrende di fronte a tale immensità di significazioni: suo dovere sarà quello di spiegare la realtà per quanto complessa essa sia, indagarne ogni aspetto, anche il più infinitesimale.
C’è il rischio dentro quest’immane operazione catalogatrice  di perdersi continuamente, c’è il rischio di diventare nevrotici, sotto l’ansia di dover raccontare e racchiudere tutto nella pagina scritta  (il romanzo contemporaneo come <<enciclopedia>>). Nevrotico, infatti, verrà definito Gadda da Calvino, perchè getta tutto se stesso in questo sforzo notevole.
Gadda comunque non si arrende in partenza, non rinuncia alla scrittura e alla funzione di raccontare e spiegare il mondo, nè tantomeno lo scrittore lombardo si limita solamente a registrare in modo oggettivo questo universo magmatico e smisurato.
Parlando infatti, a proposito di Gadda, di comicità grottesca, Calvino sottolinea il carattere espressionista della  sua scrittura, ovvero della sua tendenza a deformare, colorare, irridere il mondo, che per quanto dilatato sia, viene padroneggiato dallo scrittore e  deformato a proprio piacimento. Un’operazione non solo stilistica ma soprattutto gnoseologica: <<conoscere è inserire alcunchè nel reale; è, quindi, deformare il reale>>[7].    Una vittoria della ragione quindi sul mondo fenomenico.
Rigore conoscitivo e tensione deformante sono allora i caratteri di fondo di Carlo Emilio Gadda, scrittore di cui ci preme- per le  considerazioni che ci accingiamo a fare- ricordare ancora una volta la sua particolare visione del mondo, visto come complessità, groviglio, intrico.
Potremo usare al proposito anche la metafora del ‘labirinto’, citando un altro tra i romanzieri contemporanei richiamati da Calvino, nella sua quinta lezione americana: Josè Luis Borges. Una metafora, quella del labirinto, che introduce il titolo di una raccolta poetica del 1956, che con la sua pubblicazione destò agitazione tra gli addetti ai lavori, contrassegnando un punto deciso di rottura con la tradizione poetica italiana, ermetica e crepuscolare.
Si tratta del Laborintus di Edoardo Sanguineti,  titolo che risulta dalla fusione di due termini, ‘labor’ e ‘labirintus’: labor come lavorìo, applicazione e quindi ricerca e sperimentazione; labirinto come intrico, matassa, gomitolo e garbuglio. La complessità del mondo richiede di essere descritta tramite un linguaggio altrettanto complesso e ricercato. Tale si presenta il linguaggio di Gadda e tale si presenterà il linguaggio e l’attività letteraria in Italia tra gli anni ’60 e ’70.
Prima di procedere però a qualsiasi tipo di confronto, dobbiamo fare un importante, preliminare, precisazione. Va detto infatti che ‘labirinto’ è un termine che Gadda rifugge e che Calvino intende sfidare. Gadda nutre una personale avversione verso  simboli,  allegorie e ‘filosofemi’, verso  l’astratto ed il concettuale. Nel suo descrivere materie, liquami, odori e rumori, egli appare come uno scrittore fortemente realista.
Calvino, invece, vede nel labirinto un sinonimo di Caos, una confusione che porta ad una  conseguente resa della scrittura e dello scrittore (al quale invece egli riconosce un’importante, vitale, funzione conoscitiva)
Detto questo, possiamo riprendere il nostro discorso.
Anche se pubblicati definitivamente proprio negli anni ’60, i romanzi più importanti di Gadda vengono concepiti ed iniziano a comparire tra gli anni ’30 e ’40. Nel giro di pochi decenni la realtà socio-economica italiana ed occidentale subiscono una serie di rapidi e continui mutamenti. Tutto cresce e prolifica ad un ritmo vertiginoso,  sembrando continuamente sfuggire a qualsiasi tipo di interpretazione. L’ideologia marxista, con la sua visione del mondo totalizzante e totalitaria, sembra ormai essere insufficiente a fornire una chiave di lettura. La temperie neorealista va esaurendosi, terminata la sua contingenza storico-sociale.
Sono gli anni, questi, in cui si susseguono trasformazioni economico, politiche e sociali. Proliferano nuovi linguaggi e mezzi di comunicazione, si impone una cultura di massa ed insieme alle informazioni si accumulano merci ed oggetti di ogni tipo (la produzione industriale in serie). Proliferano anche nuove idee, saperi sempre più specializzati, nuove prospettive e frontiere di indagine.
Così si esprime Renato Barilli, polemizzando nel 1960 con Calvino a proposito degli intellettuali italiani:
Quando poi, in questo dopoguerra, essi hanno avvertito la necessità di uscire dalla lunga clausura e di partecipare, di assumere un pubblico impegno, hanno preteso riportarsi nel vivo della corrente, di colpo, senza passare attraverso pazienti mediazioni. Si sono allora precipitati a qualificarsi nel modo che appariva essere il più radicale e perentorio: si sono qualificati circa la ragion pratica, la ragione etico-politica, dimenticando del tutto gli altri aspetti dell’orizzonte culturale: aspetti psicologici, gnoseologici, concezioni del vedere, del percepire, del sentire, che pure per un artista costituiscono la via principale per integrare il suo primo nucleo poetico e prendere a partecipare a una cultura[8].

 La rivista il Verri da cui è tratto questo intervento, sembra allora dar corpo alle esigenze di nuove idee, forme e linguaggi, ad una generale insoddisfazione verso la letteratura così come era stata intesa nel decennio appena trascorso (il Neorealismo).
Più che ad una rivista letteraria stricto sensu, ci troviamo di fronte ad un laboratorio di idee che si apre anche ad altri campi del sapere. Un diverso approccio letterario, intellettuale alla realtà verrà cercato anche da altre riviste come il Menabò o Officina.  
Un’immagine vertiginosa e caotica di questa nuova realtà è quella che sembra darci il Laborintus di Sanguineti. Così lo studioso Giulio Ferroni definisce la raccolta: <<un monologo intellettuale pullulante di oggetti, liquami, dati eruditi, citazioni, esclamazioni appassionate e beffarde>>. Un <<magma di materiali stravolti ed incandescenti>> dove affonda e si cancella l’ ‘io’ del poeta. E la riduzione dell’io, di fronte al dilagare di una realtà fagocitante e nullificante, verrà propugnata in quella sorta di manifesto della Neoavanguardia  (che prenderà anche il nome di Gruppo ’63) che è  la prefazione di A.Giuliani alla raccolta I Novissimi.
La poesia di Laborintus, così come tutta l’esperienza della Neovanguardia (che rimane una delle esperienze letterarie più significative degli anni ’60), si propone come registrazione del caos della realtà contemporanea. Dal groviglio o pasticcio si è ora passati al caos vero e proprio.
La ricerca gaddiana viene esasperata allora in questa direzione.
La voce interiore del poeta è sostituita, nella scrittura neoavanguardistica, da una polifonia di voci, rumori, suoni che l’autore non riesce più ad orchestrare o quantomeno a seguire (come avveniva in Gadda). Il geometrismo si rifrange in mille schegge impazzite, in una presenza simultanea di più voci nella poesia, o di più testi di disparata provenienza, o, addirittura, di più bozze, revisioni e stesure nello stesso testo. L’abuso di parentesi, tonde ed anche  quadre, testimonia della continua complicazione della realtà e della scrittura.
Al plurilinguismo gaddiano si sostituisce, ad un livello ulteriore, il ‘mistilinguismo’ di Edoardo Sanguineti.
La punta massima di oggettivazione della poesia e di scomparsa dell’ ‘io’ si avrà con l’esperimento, realizzato da Nanni Balestrini, di affidare ai calcolatori IBM un testo i cui elementi vengono risistemati in una infinità di combinazioni.    
Il risultato di questa ricerca sarà la inevitabile proclamazione dell’incomunicabilità della poesia, di tutta letteratura, e quindi una sorta di resa dello scrittore dinanzi all’oggettività esorbitante del mondo. E’ la proclamazione, come già detto, del caos, dell’inconoscibilità del mondo, del <<valore disconoscitivo[9]>> della letteratura, che viene vista come impostura, artificio e pura menzogna nel significativo saggio   La letteratura come menzogna di Giorgio Manganelli.
Una condizione questa che verrà messa in luce e fermamente obiettata da Italo Calvino nel saggio Il mare dell’oggettività, dove alla resa dinanzi alla complessità del tutto, del brulicante, del folto o dello screziato o del labirintico, lo scrittore oppone una letteratura coscienziosa che abbia la volontà di conoscere e rintracciare la verità, sempre.
Si può stabilire quindi una sotterranea, profonda e sostanziale analogia, di tipo gnoseologico, tra due autori stilisticamente così diversi, come Gadda e Calvino, mentre tra lo stesso Ingegnere ed i protagonisti della Neoavanguardia sono invece palesi molte affinità formali, piuttosto.
Il rigore conoscitivo che caratterizzava Gadda viene accantonato laddove se ne persegue (ma in modo esasperato) la ricerca stilistico-formale.
Rimane centrale la visione del mondo come complessità e  groviglio, amplificata fino alla più totale, oggettiva caoticità, così come rimane centrale la particolare propensione dell’Ingegnere allo sperimentalismo linguistico e letterario, in una continua tensione, poichè ogni discorso, ogni ricerca rimanda necessariamente ad un altra . La letteratura non è un hortus conclusus.
Gadda verrà esplicitamente richiamato come modello dalla Neoavanguardia, movimento cui tra l’altro parteciperanno o vi graviteranno intorno altri importanti scrittori come Alberto Arbasino, Luigi Malerba e Giorgio Manganelli e teorici come Angelo Guglielmi ed Umberto Eco.
Il romanziere milanese viene richiamato da Guglielmi, ad esempio, per il suo particolare approccio alla realtà:
La linea ‘viscerale’ della cultura contemporanea in cui è da riconoscere l’unica avanguardia oggi possibile è a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una parola ‘atemporale’; non contiene messaggi, nè produce significati di carattere generale. Non conosce regole (o leggi) nè come condizione di partenza, nè come risultato di arrivo. Suo scopo è quello di recuperare il reale nella sua intattezza: ciò che può fare sottraendolo alla Storia, scoprendolo nella sua accezione più neutra, nella sua versione più imparziale, al grado zero. Gadda, Robbe-Grillet, Pollock colgono le cose al di qua (prima) di ogni possibile interpretazione, di ogni loro (delle cose) compromesso con una qualsiasi situazione di valore, non in quanto indicazioni di realtà, ma quali esemplari di realtà, campioni di materia.[10]
Ne   «il Verri» numero I, 1960 invece, Alberto Arbasino, lombardo come il Gadda,  aveva pubblicato un articolo (I nipotini dell’ingegnere e il gatto di casa De Feo   ) in cui indicava in due autori controversi, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori oltre che in se stesso, i continuatori ideali della stirpe stilistica dell’autore del Pasticciaccio: Carlo Emilio Gadda
L’articolo  indica alcuni concetti di quello che dovrebbe essere secondo Arbasino il romanzo neoavanguardista: l’uso della prima persona singolare, la saggistica, l’uso strumentale dei personaggi in favore di questioni tecniche costruttive non convenzionali: «... un tempo succedeva che si contrabbandassero contenuti libertini sotto apparenze filosofiche, mentre è chiaro che oggi questa operazione va svolgendosi rovesciata».
A Carlo Emilio Gadda inoltre Arbasino dedicherà degli importanti saggi: Genius Loci, Sessanta posizioni,   L’ ingegnere e i poeti: Colloquio con C. E. Gadda e in L’ingegnere in blu[11].
La produzione letteraria di Arbasino, nello specifico, si presenta molto sofisticata, ricca di riferimenti colti e teorie letterarie in fieri. Il suo romanzo più significativo, pubblicato proprio nel fatidico anno 1963, rimane il pletorico Fratelli d’Italia.
Un’opera dove domina il dato quantitativo, l’accumulo e  la dilatazione del reale, al punto che l’intero romanzo si configura come un’intera, fluviale digressione (1371 pagine). Un’opera aperta (il richiamo oltre che a Gadda è più esplicitamente ad Umberto Eco uno dei teorizzatori della letteratura sperimentale degli anni’60), visto che Arbasino sottoporrà nel tempo il romanzo a continue revisioni ed aggiunte.
La digressione diviene centrale in questo romanzo, così come è stato per le opere di Gadda, ma in Fratelli d’Italia la stessa digressione si amplifica fino all’eccesso, ramificandosi e deviando in continui micro-sconfinamenti,  testimoniando così di  un impulso irrefrenabile dello scrittore nei confronti della parola che, dilagando da ogni parte, esonda dalla pagina scritta.
L’effetto che si viene a creare è quello di un chiassoso, continuo vociare, di un libro o diario di viaggio scritto quasi in presa diretta (Guglielmi parla di registratore della realtà a proposito del nuovo romanzo neoavanguardistico).
 Dominano infatti in quest’opera i discorsi diretti dei protagonisti, piuttosto che le descrizioni e gli intrecci. Ma in un libro che ha abolito i caratteri fondanti del romanzo e che si basa esclusivamente sulle interminabili parole dei protagonisti, ci accorgiamo, paradossalmente, che  non c’è dialogo, quanto piuttosto conversazioni interminabili, auto-compiacenti monologhi che per la maggior parte non sono altro che narcisistiche esibizioni di cultura. Numerosissime infatti, originali e  dettagliate, sono le citazioni di cultura ‘alta’ (dalla Letteratura all’Arte, dalla Storia alla Musica) che Arbasino, con un gioco intellettualistico proprio del Postmoderno, associa ad un tipo di cultura  di massa o kitsch:
Esco un attimo, e lì davanti ecco un vero Satyricon di erettei e propilei frananti con cupole sfondate sopra odeon e trianon bombardati e grotte rosa-shocking per i marinai americani di notte, in un groviglio di terrazze borboniche e rampe di tufo cariche d’oleandri rossi e speriamo di peccato pagano in corpo puritano; anche viceversa. E là sopra, la rocca: adesso nè priapeo nè mitrideo ma carcere militare cattivissimo, adorno di millecento e seicento con l’immagine di Padre Pio sul vetro-certe anche con lampadina votiva sul cruscotto-...
...portavano lì sempre amici nuovi a far la doccia col badedas e (l’Italia!) il cha-cha-cha con l’accapatoio e la sigaretta, e (cara Patria!) le polaroid su ogni minima terrazza con bottiglione di J&B fra le petunie e le ortensie.


Tutto questo polifonico e caotico chiaccherare si rarefa nella parte finale, che procede attraverso una serie di importantissime auto-definizioni e dichiarazioni di poetica scritte quasi a mò di appunti.
Romanzo aperto, anti-romanzo o romanzo metaletterario; opera fluviale, enciclopedica e digressiva; libro autoreferenziale e  sperimentale nel suo continuo giocare con il linguaggio fino a diventare complicato e di ardua lettura: in Fratelli d’Italia troviamo molte delle caratteristiche del romanzo contemporaneo, così come inteso da Calvino e così come viene a strutturarsi nella ricerca letteraria gaddiana.
 Per concludere aggiungiamo (accanto a quelle già segnalate) anche, più nello specifico, alcune affinità di tipo stilistico  con l’Ingegnere.
Il linguaggio di Arbasino è un’inarrestabile,  spregiudicata perfomance linguistica  che si basa su una ricerca incessante di figure retoriche e che rivela, altresì, l’adozione di un plurilinguismo di matrice gaddiana  

<<Con tutta la dolorosità full time e la lamentosità de rigueur nel Bel Paese, i belli e sfacciati di questi tempi e in questi posti non praevalebunt>>

anche se l’uso abbondantissimo di termini, di intere frasi straniere, ci suggerisce piuttosto un accostamento al mistilinguismo di Sanguineti.
Siamo di fronte ad un linguaggio che molte volte diventa criptico (pieno rispecchiamento del clima neoavanguardistico), una sorta di lingua in codice per pochi addetti ai lavori, come gli stessi giovani intellettuali protagonisti del libro. Pur se il vero protagonista del libro rimane lo stesso  linguaggio e la perizia stilistica di Arbasino.
Il linguaggio sarà il protagonista dell’opera di un altro significativo scrittore di quegli anni, Luigi Malerba: dall’opera degli esordi, La scoperta dell’alfabeto (22 racconti, ognuno per ogni lettera dell’alfabeto, ambientati in un mondo contadino destinato ormai alla scomparsa),  alla parola capace di uccidere in Fuoco greco (falsità, congiure e tradimenti nella corte imperiale bizantina),  fino   ai medioevali pastiches linguistici de il Pataffio.
Nel corso degli anni ’60 Malerba pubblicherà due importanti romanzi,  Il serpente e Salto mortale,  i cui titoli (il serpente che si morde la coda e l’avvitamento su sè stessi del salto mortale) rimandano ad una generale autoreferenzialità della letteratura, che- impossibilitata a raccontare la realtà- finisce per ripiegarsi su sè stessa,  moltiplicando e falsificando la stessa realtà (anche se è proprio raccontando menzogne che si rivela la verità).
Costruiti sull’impianto del romanzo poliziesco questi due romanzi vengono a configurarsi come opere sperimentali, come un ‘giallo nel giallo’ che richiede la partecipazione attiva del lettore nel discernere il reale dall’immaginario.
In linea generale l’Universo secondo Malerba è caotico, sovraccarico, illusorio e contradditorio (con la conseguente rottura o sovrapposizione delle trame o la frantumazione dell’io narrante in una tragicomica crisi d’identità o mitomania).
Nello specifico invece questi due romanzi di Malerba tratteggiano in modo spietato la realtà socio-economica degli anni ’60, l’Italia del boom o in modo più dispregiativo l’Italietta già a sua volta descritta da Arbasino in Fratelli d’Italia.
Ecco che allora viene a configurarsi, in termini di rifiuto e distacco, un atteggiamento che accomuna molti degli scrittori degli anni del benessere: praticamente tutti gli aderenti al movimento della Neoavanguardia ma anche altre voci importanti dell’epoca  (pensiamo all’emblematica polemica di Pasolini, solo per fare un esempio).
Una caratteristica questa che ritroviamo anche in Gadda, se ne consideriamo la violenta e deformante satira antiborghese,  sottesa nei suoi due romanzi più famosi ( contro la borghesia perbenista della Roma fascista o quella opulenta delle ville brianzole).
Se Arbasino guarda l’Italia di quegli anni con  dandystico e divertito snobismo e Malerba vede tutto con  sospetto e diffidenza, in un autore come Giorgio Manganelli si arriva addirittura al rifiuto più netto ed angosciato, ad una leopardiana disperazione aggiornata agli anni del consumo accessibile a tutti.
<<Titillante>> infatti (termine meno nobile di tanta inquietudine letteraria e filosofica del passato) la definisce prosaicamente l’autore,  in un’ opera iperletteraria come l’Hilarotragoedia, un libro a metà strada tra il trattato filosofico ed il monologo narrativo.
C’è un passo specifico di quest’opera che esprime proprio una netta cesura tra realtà e letteratura, un atteggiamento ravvisabile, più o meno esplicitamente, in molti autori di quegli anni. Viene così a delinearsi  un  distacco, allora,  dello scrittore dalla nascente società consumista e massificante, una società meschina, angusta ed insignificante, che Manganelli descrive in questo modo:   

Ascolta musica, specie canzoni, quanto vuoi vili, inoneste, idiotissime: lì troverai questa angoscia incòndita...La troverai nei films, nei rotocalchi, anche vili, nelle famigliole...
E dunque mastica la decrepita meringa, bevi  l’aleatico da luna-park, inorgasma la tua anima dattilografa, mordi il cuscino del tuo decesso in omaggio all’afrore ascellare di una canzone d’amore, confidati all’angelo che rutta e puzza, paventa il fumetto di terrori di un inferno tepido e rosè. Pure di questo alimenterai la catalievitazione, l’amor mortis, il descensus ad coelum.

Canzoni, films, rotocalchi, famigliole, meringhe, luna park, dattilografa, fumetto: con queste parole (cui vengono ogni volta accoppiati termini colti)  viene tratteggiato un Paese mediocre, popolato da impiegatucci e dattilografe. Un impiego,  quest’ultimo, che rimanda ad un altro autore della Neoavanguardia,  Elio Pagliarani, ed alla sua Signorina Carla, modestissima impiegata dattilografa, travolta dalla nascente città industriale di Milano.
Al lato opposto di questa grigia realtà piccolo borghese (la stessa che Arbasino, in modo  divertito, vedrebbe con più folkloristico colore nelle riprese di un ipotetico film[12]), agli antipodi della realtà di quegli anni vi è la Letteratura, con la L maiuscola, la Cultura cioè, la profonda conoscenza delle tecniche del linguaggio, la letteratura della tradizione e quella dell’avanguardia, che sono altre cose rispetto al cinema, le canzonette e le pubblicità.
Una letteratura che  mantenendosi distaccata dal mondo e trincerandosi in un’aristocratica superiorità, viene a configurarsi in Manganelli (come negli autori della Neoavanguardia) come perenne gioco intellettuale, ricerca e sperimentazione, condotte soprattutto sul linguaggio, che diventa così sempre più sofisticato e complesso, fino ad arrivare alla più esibita e provocatoria incomprensibilità.
‘Hilarotragedia’ (da hilaris e tragoedia) risulta essere, come ‘Laborintus’ di Sanguineti, un incrocio verbale,  una figura spesso ricorrente in Gadda e che  Giorgio Manganelli non lesina nelle proprie opere (<<catalievitazione>>, <<monoaccentra>>, <<mandrillosimili>>), assieme ad altre, continue invenzioni fono-verbali, così come tecnicismi e termini di desueta letterarietà,  neologismi e tortuose costruzioni sintattiche.
La perizia stilistica di Manganelli, Arbasino o altri, è un aspetto di quello che resta secondo noi il comune denominatore della letteratura degli anni ’60\’70: la ricerca.
Ricerca che si basa su due presupposti: la visione sempre più complessa della realtà (che richiede nuove formule, nuovi moduli) ma anche una dovuta differenziazione della letteratura rispetto ai canali e alle forme della cultura di massa.
Una direzione inaugurata da Gadda e continuata in modo diverso da tanti autori, che porta l’opera d’arte a divenire sempre più complicata, elaborata ed ipercolta. A rifiutare il grande pubblico, la società di massa, sviluppando quasi degli anticorpi, dei meccanismi di autodifesa garantiti dalla non facile fruibilità del prodotto letterario.
E’ un clima generale che coinvolge tutti gli scrittori di questo periodo, non solo quelli rientranti nella Neovanguardia. Ecco perchè si può parlare, a buon ragione,  di Neosperimentalismo.
Prendiamo il caso di Pasolini, ad esempio, che può essere visto come emblema del rifiuto più palese nei confronti della società di massa. Pur discontandosi apertamente dalle posizioni della Neoavanguardia, l’opera di Pasolini tende a diventare, proprio a partire dagli anni ’60, sempre più complessa e simbolista, quasi concettuale, densa di significati e riferimenti, e quindi di difficile lettura. E’ il caso dei suoi films, a partire da Uccellacci ed Uccellini fino a Salò o le 120 giornate di Sodoma, opere che abbandonano l’immediatezza poetica e narrativa delle origini per assumere un impianto più filosofico, saggistico, come avverrà per il romanzo iper-sperimentale Petrolio: un romanzo <<metanarrativo e antinarrativo[13]>> a detta dello stesso autore.
Il rifiuto della società di massa viene espresso con toni violenti ed apocalittici da Pasolini, attraverso opere che però non si lasciano programmaticamente leggere dal grande pubblico. La letteratura ed il cinema non si piegano alle leggi del mercato o ai codici della comunicazione di massa, ma rimangono un prodotto per pochi addetti ai lavori. Un prodotto ipercolto, intellettualistico e spesso autoreferenziale.
Succede infatti che molte volte la ricerca linguistica e strutturale di quegli anni finisca per ripiegarsi su sè stessa, come nel ‘morso del serpente’ o nel ‘salto mortale’ di Malerba, ma come anche nella ricerca letteraria di Calvino, così come viene a configurarsi proprio a partire dagli anni’60. Anche Calvino, come Pasolini, aveva preso le distanze dalla Neoavanguardia, pur portando avanti una propria e condivisa ricerca letteraria (si pensi all’esperienza del Menabò), che rientra appieno nel clima neosperimentalista di quegli anni, un clima fortemente agguerrito in cui si susseguono –a colpi di articoli, interventi, saggi - diverse  teorie e polemiche letterarie.
 Una ricerca, quella di Calvino, sempre più metaletteraria (che raggiungerà il culmine con Se una notte d’inverno un viaggiatore), una ricerca condotta  sui meccanismi della narrazione, sul senso e lo scopo della letteratura, sulle sue strutture fondamentali,  anche se Calvino,  nelle sue teorizzazioni romanzesche, non perde però mai di vista la realtà. Ne parleremo più ampiamente nel secondo capitolo.
Un’altra caratteristica di fondo (ulteriore aspetto autoreferenziale ed intellettualistico) della letteratura di questi anni è l’intertestualità, il citazionismo e la tendenza a rielaborare e riscrivere opere, famose o meno, del passato. Che è poi uno degli aspetti fondanti del Postmoderno.
Possiamo citare una serie di rifacimenti di opere letterarie precedenti: dal principe costante di Arbasino a Pasolini, con le riscritture delle tragedie classiche o con la Trilogia della vita, fino al rovesciamento dei ruoli attuato da Luigi Malerba in Itaca per sempre (anche se pubblicato nel 1997).
Una chiave di lettura di queste operazioni potrebbe essere la volontà di rivisitare dei classici attraverso una visione molto più complessa del reale (teniamo sempre presente Gadda e le premesse di questo capitolo). Succede allora che una favola universale come Pinocchio diventi: una complicata rilettura filosofica in Pinocchio un libro parallelo di Manganelli, un’escursione di un personaggio rivoluzionario in altre celebri fiabe, con Malerba (Pinocchio con gli stivali), o un esercizio di destrutturazione e ricerca teatrale  nel celebre Pinocchio di Carmelo Bene[14].
La figura e la ricerca di Carmelo Bene aggiungono un importante tassello nel quadro letterario degli anni ’60\’70. Egli rappresenta il Rifiuto in persona. La dissacrazione e rielaborazione, la complicazione e mistificazione di tutto ciò che è ‘borghese’, convenzionale, tradizionale, comune. Carmelo Bene, con un’ossessione quasi paranoica, mette in discussione tutto, fin anco una semplice frase o affermazione, ed il suo teatro, perseguendo un linguaggio iper-complesso, diventa allora destrutturazione, metateatro. Queste considerazioni  possono valere anche per il suo Cinema, pur se meno frequentato da C.Bene, se si tiene presente che l’autore dirà di essere interessato unicamente ad <<un cinema che filmi sè stesso>>.
Pura, intellettualistica e snobistica autoreferenzialità.
E nell’ambito della ricerca teatrale e letteraria si collocano anche le riscritture di Giovanni Testori, la cosiddetta  Trilogia degli Scarrozzanti,  con: Ambleto (1972), Macbetto (1974) ed Edipus (1977).
L’Ambleto rappresenta  una  riscrittura di una precedente sceneggiatura dell’autore, cui si aggiungerà addirittura un ulteriore Post-Hamlet[15]. Una testimonianza del carattere non concluso dell’opera letteraria, sottoposta ad un continuo, costante rifacimento (si pensi alle successive edizioni accresciute di Fratelli d’Italia di Arbasino).
In queste opere Giovanni Testori, lombardo come Gadda ed Arbasino, porta agli estremi livelli la propria ricerca sul linguaggio, collaudando un personale plurilinguismo di matrice gaddiana: su un sostrato costituito da un dialetto milanese-brianzolo (ricostruito dall’autore) si innestano infatti il latino clericale, il francese, l’inglese, lo spagnolo (che ricorda la dominazione secentesca) assieme al linguaggio aulico ed il linguaggio tecnico.
Il plurilinguismo, sperimentato da molti autori di questo periodo, sarà inoltre presente anche in un romanzo che, pur se pubblicato definitivamente nel 1975, mostra molti dei caratteri di quel neosperimentalismo inaugurato negli anni’60, come la fluvialità, la lunga elaborazione e lo spessore stilistico-intellettuale. Si tratta dell’Horcynus Horca di Stefano D’Arrigo.

Concludendo, possiamo riassumere che i due decenni passati in rassegna, gli anni ’60 e ’70,  si contraddistinguono, in letteratura,  per una linea compositiva che è stata definita ‘neosperimentale’[16] (prendendo come modello Gadda) ed è caratterizzata da quella che S. Guglielmino ha definito <<esasperazione della letterarietà>>, una linea nella quale noi abbiamo voluto vedere, assieme all’influenza  del sistema letterario-filosofico gaddiano, anche un sostanziale rifiuto, espresso in diversi modi dagli intellettuali verso le nascenti società e cultura di massa.
Esasperazione della letterarietà, quindi, come conseguenza di una visione sempre più complessa del reale ma anche come indice di un rifiuto espresso dalla Cultura nei confronti di quella  sub-cultura (o sub-culture) riduttiva e superficiale, che viene a formarsi in quegli anni e che diventa dominante nella società di massa. Rifiuto che si esprime attraverso le pagine sdegnate, snobistiche e talvolta divertite di Manganelli, Malerba, Arbasino o attraverso la violenta, ideologica invettiva di Pasolini, ma che si può cogliere anche attraverso altri atteggiamenti, come ad esempio nel rifugio in un mondo arcaico e rurale, con un conseguente recupero letterario della lingua di quel mondo destinato ormai a sparire: saranno la produzione di Tomizza, Rigoni Stern, Bonaviri o la poesia rurale e dialettale di  Zanzotto, Sgorlon, Marin. Una linea compositiva già inaugurata dallo stesso Pasolini con Poesie a Casarsa, 1942,  (il quale addirittura ad un certo momento cercherà rifugio ed ispirazione nell’Africa o nell’India al di fuori dell’Occidente contaminato dal progresso).
Al lato opposto di questa tendenza possiamo trovare quella che lo stesso Guglielmino ha definito come <<eliminazione della letterarietà>>: una proliferazione di poeti, più che di poesie, e di narratori dilettanti (diari, resoconti, autobiografie). Sarà il frutto della protesta e della proclamata creatività che nasce con il movimento del ’68.
Una protesta che verrà portata avanti in modo anarchico e totale, ma anche senza vie d’uscita,  poichè condotta in seno a sè stessa ( i giovani contestatori, citando Pasolini, sono infatti gli stessi figli della Borghesia) dai movimenti giovanili sessantotteschi, che daranno il via ad una nuova stagione letteraria o meglio anti-letteraria. Negli anni ’70 infatti proliferano happenings creativi, poeti e narratori improvvisati, scritture spogliate fino al grado zero: è la linea dell’eliminazione della letterarietà con cui si esprime il dissenso anche nei confronti della Cultura alta.

Una forma singolare di aristocratico rifiuto, invece, che ci riporta alla esasperazione della letterarietà, sarà infine anche la scelta del silenzio, perseguita per molti anni da un autore come Gesualdo Bufalino, fino alla pubblicazione del romanzo Diceria dell’untore, che più che sperimentale potremo definire sontuoso, ricercato e barocco nella laboriosa perizia stilistica. Un’eleganza di altri tempi, volutamente esasperata contro l’imbarbarimento e l’appiattimento del linguaggio e della letteratura dell’era di massa (a partire già dal Neorealismo).
Siamo ormai arrivati agli anni ’80, quando le due tendenze letterarie appena citate si stemperano in un clima generale di rilassamento, dove si placano snobismi, tensioni ed estremismi rivoluzionari, mentre tutto sembra essere narcotizzato da una nuova più potente ondata di benessere: si impone, ormai definitivamente, una società edonistica e consumista, dove consumi, merci, mode, investono oramai ogni aspetto della vita delle persone.
Sono gli anni della ‘americanizzazione’ di tutto l’Occidente, e non è un caso che proprio negli States verrà ambientato un romanzo significativo come Treno di panna di A. de Carlo, un libro che, con una impostazione ed un linguaggio differenti dalle passate stagioni,  sembra inaugurare una nuova stagione letteraria:quella di un ritorno al romanzo tradizionale, all’opera finita, definita ed accessibile a tutti, anche al largo pubblico (best seller), un ritorno al piacere di narrare e raccontare, dove la letteratura si avvicina alle forme più diffuse della cultura di massa: cinema, musica, tv. L’affermarsi di una ‘letteratura giovanile’, scritta da giovani e rivolta a giovani, a coloro cioè che sono oramai imbevuti della cultura di massa (canzoni, fumetti e tv piuttosto che libri), testimonia oramai di questo cambiamento, assieme ad un generale ritorno e proliferazione del romanzo.



[1] Italo Calvino Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori 1993.
[2] Nell’edizione Garzanti 1957.
[3] Italo Calvino, ibidem pag. 116.
[4] Italo Calvino, ibidem.
[5] Gian Carlo Roscioni La disarmonia prestabilita, Einaudi 1969.
[6] Gian Carlo Roscioni, op.cit., pagg. 8, 9, 10.
[7] Italo Calvino, ibidem, pag.118.
[8] Il mare dell’oggettività in “Il Verri” n.2, aprile 1960

[9]  Sono le parole di A. Guglielmi citate da Calvino nella Presentazione di Se una notte d’inverno un viaggiatore. A questa visione della letteratura Calvino oppone la <<passione conoscitiva>> di C.E.Gadda (Lezioni americane, 119)
[10] Angelo Guglielmi, Gruppo 63, Feltrinelli, Milano 1964

[11] Genius Loci  published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)  1977; L' ingegnere e i poeti : Colloquio con C. E. Gadda. Milano, Feltrinelli  1963; Sessanta posizioni, Milano, Feltrinelli, 1971; L'Ingegnere in blu, Milano, Adelphi, 2008.

[12] Dal titolo L’Italia si chiama Amore:
<<... la storia bisogna che sia assolutamente estiva, tanti Vesuvi e tante gondole, e colori-colori-colori. Naturalmente, siccome dovrebbe andare in tutto il mondo con aspettative di incassi, occorrono i personaggi internazionali, almeno una canzone di successo, la scena-madre in trattoria, la simpatica cialtroneria italiana, e tutto. Magari anche il giochino di società da lanciare: se non addirittura il ballo dell’estate prossima.>> Da Fratelli d’Italia, cit.
[13]  « È un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia » dalla lettera ad Alberto Moravia, datata 10 gennaio 1975. Nel progetto dell'autore l'opera avrebbe dovuto inoltre raggiungere ogni estremo della forma fino a quello illeggibile delle pagine in greco o giapponese.
[14] Pinocchio: un libro parallelo Adelphi  2002,  Pinocchio con gli stivali (Cooperativa Scrittori, 1977, poi Monte Università Parma, 2004),
[15] Già nel 1970, Testori aveva scritto la sceneggiatura di un Amleto, ora pubblicata da Aragno (Giovanni Testori - Amleto. Una storia per il cinema – Aragno, 2002); vi fu infine il Post-Hamlet: «Con il Post-Hamlet sale a tre il numero delle rivisitazioni, degli imbastardimenti, degli strozzamenti, certo, delle derelitte e parzialissime prove che il qui scrivente ha tentato d’eseguire su e perfino contro (egli sa, lo sa benissimo) il sublime esemplare. (…)». 
(G. Testori, Dall’Amleto della speranza al bosco della vita, Il corriere della Sera, 9 aprile 1983)
[16] W. Pedullà.

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