Ci sono molte
analogie che accomunano i romanzi vincitori di due recenti e consecutivi premi Strega(2008 e 2009): La solitudine dei numeri primi di Paolo
Giordano e Stabat mater di Tiziano
Scarpa.
La storia di
Cecilia, ragazza abbandonata e cresciuta in un orfanotrofio, e quelle di Mattia
ed Alice, matematico lui, rinchiusosi in un volontario ed auto-lesionista
autismo, adolescente e ragazza ‘diversa’ lei-per via di una gamba
claudicante-che cerca in tutti i modi di somigliare alle sue coetanee, sono
storie dalle quali emerge un unico tema di fondo: la solitudine (che
non a caso dà il titolo al libro di Giordano).
Una solitudine che
‘attualizzata’ diventa innanzitutto incapacità di dialogare, disadattamento
(<<Poi pensò che era la cosa più naturale del mondo e che proprio per
questo lui non ne era capace>>, La
solitudine dei numeri primi). Per
sforzarsi di diventare bella come le compagne di scuola, ed entrare così nel
loro giro, Alice finisce per diventare anoressica. Questa sua malattia le si
imprime come un segno indelebile e doloroso, quanto le cicatrici profondissime
che ogni volta Mattia si procura per non sentire un dolore incessante, il
rimorso che lo soffoca, da quando-bambino-ha abbandonato la sorellina disabile
in un parco...per poter andare da solo ad una festa di compleanno.
Numerare ogni cosa,
applicare a tutta la realtà una legge fisica o matematica, adesso gli serve a
dare, spesso in modo forzato e paranoico, un senso al mondo esterno.
Cecilia (Stabat mater), lei il mondo esterno non
lo vede nemmeno, è cresciuta tra gli spessi muri di un orfanotrofio e, quelle
poche volte che alle trovatelle –destinate a diventar monache-viene concessa un uscita, lei chiude gli occhi,
preferendo sentire la musica, i rumori della realtà.
La solitudine
amplificata ed allucinata di questa ragazza (che nel silenzio della notte vede
e parla con una personificazione ‘anguicrinita’ della Morte) diventa vera e
propria condizione esistenziale, meditazione filosofica di chi si trova al
mondo senza una madre, senza un’identità. La solitudine diventa morte. Stabat mater lo si potrebbe definire
come un romanzo sulla morte, un romanzo che trasuda morte dappertutto, come l’umidità
nella città di Venezia (dove è ambientato): dal violino fatto di viscere di
animali morti ed alberi abbattuti al macello che sporca di rosso i canali di
Venezia; dal vecchio patrizio che muore ascoltando la musica fino all’immagine
fortissima di Venezia <<cimitero di acqua e fango>>, dove, nel
fondo dei canali si muovono come meduse disperate o giacciono nella melma,
migliaia di corpicini di bambini non voluti ed occultati dalle madri con
l’annegamento. Si potrebbe continuare così
citando ancora tante altre immagini del genere.
Venire al mondo,
diventa in realtà un morire. In una delle sue tante fughe notturne, senza via
di uscita, quando aveva ancora quattro anni, Cecilia ha assistito ad un parto
furtivo di una suora e quell’immagine le si è distorta in una allucinazione: il
bimbo nasce, esce fuori come un escremento azzannato da un serpente (il cordone
ombelicale). Lei crede allora che tutti i bambini vengano morsi dal serpente,
che gli innietta il suo veleno mortale: <<anche loro sono segnati, il
loro destino gli è stato inoculato nella pancia...i bambini portano al centro
del loro corpo una cicatrice di madre, una cicatrice di morte, per
sempre>>.
La morte è la nascita stessa, è annullamento,
solitudine, assenza di identità; non vivere, non conoscere, non guardare.
Da questa condizione
i tre protagonisti dei romanzi cercano di fuggire rifugiandosi nei loro talenti
naturali, che rappresentano poi la loro diversità: la passione per la
fotografia di Alice; la matematica per Mattia; la musica per Cecilia. Cercare
in modi diversi di dare un senso ad un mondo che ne è privo, ad una realtà
dolorosa: scoprire la perfezione matematica di ogni fenomeno, ogni avvenimento;
fermare il tempo, catturarlo, impossessarsene; cancellare il dolore, le forme
della realtà nell’<<idea pura>> della musica.
Analoga infine,
sembra essere, per molti versi, anche la conclusione dei due romanzi. I due
‘numeri primi’ rimarranno soli, separati (freddo e meccanico il loro addio). Il
romanzo di Giordano si conclude con un
desiderio di annullamento di Alice (che è il desiderio di fondo sotteso in entrambe
le opere): lasciarsi trasportare dalla corrente di un fiume, lontano, in un
posto dove nessuno ci conosce, così come è capitato a Michela, sorella
‘ritardata’ di Mattia, scomparsa per sempre e presumibilmente annegata. Una
sensazione di abbandono, solitudine definitiva e piacevole, che Alice ha già
provato da piccola, cadendo nella neve in una vallata deserta e rimanendovi una
notte intera.
La neve, l’acqua che
affoga ogni pensiero, ogni dolore; quella stessa acqua che avvolge e sommerge
tutta la città di Venezia. Sarà attraverso il mare che Cecilia realizzerà la
sua fuga finale.
Mattia tornerà alla meccanica vita universitaria di una
fredda città nordeuropea, dove continuerà ad azzerare ogni dolore e a numerare
tutto ciò che non ha senso (il mondo, la vita, le persone, cioè tutto).
Cecilia, dopo aver
suonato per l’ultima volta il suo violino, un’esecuzione struggente con cui
scarica tutto il suo dolore, sceglie alla fine di esistere, in quel mondo a cui
ha sempre negato l’esistenza: scappa dall’orfanotrofio e si imbarca verso
l’Est, verso un Ignoto che decide di guardare, di respirare, di vivere.
La giovane, giovanissima letteratura italiana contemporanea è
viva (lo testimoniano due premi Strega
consecutivi) ma sembra lanciarci un monito: stiamo morendo o forse siamo già morti,
senza essercene accorti.
Mario Masotti
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